mercoledì 29 dicembre 2010

L'esistenza è una condanna senza appello e senza riscatto; niente vi è da fare contro di essa; ed è forse la nostra speranza soltanto, il nostro bisogno di riprender fiato come dall'acuto dolore d'una ferita, che ha immaginato uno stato altro dall'esistere, un nulla. Forse, mio Dio, tutto esiste, è esistito, esisterà in eterno. Non c'è niente da fare contro la vita, fuorchè vivere, press'a poco come in un posto chiuso dove si sia soffocati dal fumo del tabacco non c'è di meglio che fumare..

dal Rien va di Tommaso Landolfi

La guerra di Petru

...il ragazzo non comprendeva
cosa volesse dire,

è una musica di quattro
note in corsa...tutto qui.

L'uomo sparava distratto
mentre il mondo attento fuggiva,

Il ragazzo pensava finiranno
prima o poi, di uccidermi ancora.

Poi la musica finì, il mondo
distrattamente tornò
sul suo passo lento.

Il ragazzo lasciò finalmente
cadere le sue quattro note,

e prima di andar via pensò

Suonate per me

ORA

starrá chiagnenno quacche 'nfamitá

domenica 26 dicembre 2010

Te veco, cu na rosa 'inte capille, vicino a me-vicino a me...

Viene addu me! Cuntèntame stu core
che, 'a tantu tiempo, penza, aspetta e spera...
Lèvame 'a pietto 'sta fattura nera,
pecchè te chiammo cu nu vero ammore!

Te veco, cu na rosa
'inte capille,
vicino a me...
Vicino a me...

Mme pare 'e darte vase a mille a mille,
sempe sunnanno 'e te!
Sempe sunnanno 'e te...

Siéntelo, oje bella, 'o suono 'e sti pparole
Viene addu me, quanno tramonta 'o sole!

Quanno tramonta 'o sole, e tuttecosa,
jènne pe' s'addurmí dinta nuttata,
piglia 'o culore 'e na viola nfosa...
tanno te penzo sora e 'nnammurata!

Tanno te sento mia
tutta felice,
senza parlá...
Senza parlá!

Cu ll'uocchie dint'a ll'uocchie e po' mme dice:
"Quanta felicitá...
Quanta felicitá!..."

Siéntelo, oje bella, 'o suono 'e sti pparole!
Fatte vasá, quanno tramonta 'o sole!

comme' me sbatte forte 'o mare stasera, senza 'e te

giovedì 23 dicembre 2010

inseguendo, all'ultimo capitolo, il mio sosia sulla prospettiva Nevskij

...
Mancava poco alle otto del mattino allorché il consigliere titolare Jakòv Petrovic Goljadkin si svegliò da un lungo sonno, fece uno sbadiglio, si stiracchiò e aprì finalmente del tutto gli occhi. Per due minuti, però, rimase a giacere immobile nel suo letto come un uomo non completamente sicuro se sia sveglio o se ancora dorma e se tutto ciò che accade intorno a lui sia realtà o non piuttosto la continuazione di un fantastico sognare. Ma ben presto i sensi del signor Goljadkin ripresero ad accogliere, più chiare e più precise, le consuete, abituali impressioni..
[Il sosia - Dostoevskij]
tra queste mani che non tornano
théorie du manque d'objet

giovedì 16 dicembre 2010

martedì 7 dicembre 2010

e trovo un pò buffo, e trovo un pò triste, che i sogni in cui muoio siano i più belli che abbia mai fatto

lunedì 6 dicembre 2010

He's a miniature philosopher
He stands five foot three
So no one takes him seriously
He's in love with Gertrude Lullaby
But she doesn't care for him
He's like a house boy
to Miss Lullaby
And their future looks very dim

He's a miniature philosopher
He takes notes on all he reads
But that doesn't satisfy his needs
He's a desk clerk at the bank and trust
There's so many contracts and paperwork to do
He gets so busy at the bank and trust
There is no time for Nietzsche or Camus

He's a miniature philosopher
He writes essays on Voltaire
But if he died no one would care

He doesn't know why his life turned out this way
No one ever reads his dissertations or allegoric plays
So he comforts himself while searching a rhyme
That the public rarely recognize a genius in their time
(poor little guy)
He's a miniature philosopher
Though he hasn't got a friend
He's sure he'll be famous in the end
Non siete voi che mi cacciate, sono io che vi condanno a rimanere.
Addio zena

martedì 16 novembre 2010

ahi tu notte, perchè tanto scompiglio?


Amico mio, amico mio,
Sono molto molto malato.
Non so io stesso donde provenga questo male.
Se sia il vento a fischiare
Sulla vuota e deserta campagna,
o se l’alcool sconvolga i cervelli
come un boschetto a settembre.

La mia testa sventola le orecchie,
Come un uccello le ali.
Non ha più la forza
Di dondolarsi sul collo.
Un uomo nero,
Nero, nero,
Un uomo nero
siede sul mio letto,
Un uomo nero
Non mi fa dormire tutta la notte.
un uomo nero
muove il dito sul libro abominevole
E, con voce nasale,
Come monaco sopra un defunto,
Mi legge la vita
Di un furfante e ubriacone,
incutendo nell’anima angoscia e sgomento.
un uomo nero
Nero, nero...

«Ascolta, ascolta mi, -
va borbottando, -
ci sono nel libro molteplici
piani e pensieri bellissimi.
abitava quell’uomo
nella contrada
Dei più tremendi
Teppisti e ciarlatani.

A dicembre in quella contrada
La neve è diabolicamente pura,
E le bufere mettono in moto
allegre conocchie.
era quell’uomo un avventuriero,
Ma della specie migliore
più alta.
era elegante,
E per di più poeta,
benché di una forza non grande,
ma spigliata,
Ed una certa donna,
di quarant’anni e passa,
la chiamava puttanella
E insieme sua diletta».

«La felicità – egli diceva,–
È destrezza di mente e di mani.
Tutte le anime maldestre
ebbero sempre fama di infelici.
Non per nulla,
Se molti tormenti
arrecano i testi
ambigui e bugiardi.
fra tempeste e bufere,
Nel gelo della vita quotidiana,
Nelle perdite gravi
E nelle tristezze,
mostrarsi sempre sorridenti e semplici –
È l’arte suprema nel mondo».

«Uomo nero!
tu non osi altrettanto!
Che m’importa della vita
Di un poeta scandaloso.
leggi ad altri
ti prego
il tuo racconto-

L’uomo nero
Mi guarda fissamente.
E gli occhi gli si coprono
Di un vomito azzurro,
quasi volesse dirmi,
Che sono un ladro e un furfante,
Che impudente e spavaldo
qualcuno ha derubato.
………………………
Amico mio, amico mio
Sono molto molto malato.
non so io stesso donde provenga questo male.
Se sia il vento a soffiare
Sulla vuota e deserta campagna,
o se l’alcool sconvolga i cervelli
come un boschetto a settembre.

[Notte di gelo...
La pace al bivio è silenziosa
Sto solo alla finestra,
Non aspetto né amico né ospite
Tutta la pianura è ricoperta
Di una calce friabile e molle,
E gli alberi, come cavalieri,
Sono a raduno nel nostro giardino.
Da qualche parte piange
Un uccello notturno malefico.
I cavalieri di legno
Seminano un rumore di zoccoli].
l’uomo nero ancora
togliendosi il cilindro
getta il soprabito con non curanza
viene a sedersi sulla mia poltrona.

«Ascolta, ascolta! –
Mi fa con voce sgradevole, fissandomi in viso,
e si piega sempre più vicino. –
io non ho mai, visto mai
nessun furfante
Soffrire d’un’insonnia
così stupida
e vana.

Ah, supponiamo io mi sia sbagliato!
stanotte c’è la luna.
Di che altro ha bisogno
Questo piccolo mondo ubriaco di sonnolenza?
Forse, con le sue grosse cosce
“Lei” verrà di nascosto,
E tu le leggerai
La tua languida lirica sfiatata?

Ah, io amo i poeti!
razza divertente.
ritrovo sempre in loro sempre
Una storia al cuore ben nota,
Come una studentessa pustolosa
E un mostro dai lunghi capelli
Che le parla del cosmo,
grondando languore sessuale.

Non so, non ricordo,
In un villaggio,
Forse, a Kaluga,
ma forse anche a Rjazan’,
In una semplice famiglia contadina,
viveva un ragazzo
di gialla chioma,
Con gli occhi azzurri…
E divenne adulto,
E per di più poeta,
benché di una forza
non grande ma spigliata
Ed una certa donna,
di quarant’anni e passa
che egli chiamava puttanella,
E insieme sua diletta».

«Uomo nero!
sei un ospite pessimo.
Questa fama
Da tempo ti circonda».
vado in collera, fuori di me,
il bastone mi vola diritto
sul suo muso,
alla radice del naso…
……………………………
… La luna è morta,
alla finestra intiepidisce l’alba.
Ah tu, notte!
perché tanto scompiglio?
Me ne sto qui col mio cilindro.
con me non c’è nessuno.
Sono solo…
nello specchio
infranto…

- Sergej Esenin

martedì 9 novembre 2010

del non avere la testa



Il giorno più bello della mia vita - il giorno della mia seconda nascita per così dire - fu quando scoprii che. non avevo la testa.
Questa non è una trovata letteraria, una spiritosaggine per destare interesse a ogni costo. Lo dico con la massima serietà: io non ho la testa.
Feci questa scoperta diciotto anni fa, quando avevo trentatré anni. La cosa, certo, successe di punto in bianco, e tuttavia venne in risposta ad una ricerca incalzante; da molti mesi una domanda mi assorbiva completamente: che cosa sono io? Il fatto che a quel tempo stessi percorrendo a piedi la regione dell'Himalaya probabilmente aveva poco a che fare con la faccenda, per quanto dicano che in quella contrada sia più facile che insorgano stati mentali insoliti.
Comunque sia, una giornata calmis sima e limpida e la vista, dalla cima su cui mi trovavo, di brumose vallate azzurre che si stendevano fino alla catena montuosa più alta del mondo, col Kanchenjunga e l'Everest quasi sperduti fra i picchi inneva ti, formavano uno scenarioo degno della visione più grandiosa.
Ciò che accadde in realtà fu qualcosa di assurdamente semplice e ordinario: smisi di pensare.
M'invase una quiete curiosa, una strana fiacchezza o intorpidimento vigile. La ragione, l'immaginazione e tutto il chiacchierio mentale tacquero. Per una volta, mi mancarono davvero le parole. Passato e futuro scivolarono via. Dimenticai chi e che cos'ero, il mio nome, la mia umanità, la mia animalità, tutto ciò che poteva dirsi mio. Fu come se fossi venuto al mondo in quell'istante, nuovo di zecca, privo di mente, innocente di ogni ricordo.
Esisteva solo l'Ora, il momen to presente e ciò che era chiaramente dato in esso. Mi bastava guardare. E scoprii un paio di pantaloni color cachi che finivano in basso in un paio di scarpe marrone, maniche color cachi che finivano ai lati in un paio di mani rosee e il davanti di una camicia color cachi che in alto finiva in... nulla, assolutamente nulla! Certamente non in una testa.
Non ci misi neanche un attimo per accorgermi che quell nulla, quel buco dove avrebbe dovuto trovarsi una testa, non era una vacuità ordinaria, un semplice niente: al contrario, era tutto occupato.
Era un ampio vuoto largamente riempito, un nulla che trovava posto per tutto; posto per 1'erba,.gli alberi, le lontane colline ombrose, e lassù, sopra di loro, i picchi innevati, come una fila di nubi spigolose in corsa nel cielo azzurro.
Avevo perduto una testa e acquistato un mondo.
Fu un'esperienza che mi lasciò letteralmente senza fiato: mi parve di smettere affatto di respirare, assorbito com'ero nel Dato.
Era lì, quella scena superba, scintillante nell'aria limpida, sola e senza alcun sostegno, misteriosamente sospesa nel vuoto e (questo era il vero miraco lo, la meraviglia e la gioia) assolutamente libera da "me", vergine d’ogni osservatore. La sua totale presenza era la mia totale assenza, corpo e anima.
Più leggero dell'aria, più trasparente del vetro, comple Innu•nte affrancato da me stesso, io non ero più in nessun luogo.
Pure, nonostante il suo carattere magico e arcano, questa visione non fu un sogno o una rivelazione esoterica. Anzi, fu come un improvviso risveglio dal sonno della vita ordinaria, come la fine di un sogno. Era la realtà che splendeva di luce propria, sgombra una volta tanto della mente che tutto oscura.
Era, finalmente, la rivelazione del perfettamen te evidente. Era un momento di lucidità nella storia confusa di una vita. Era un cessare di ignorare qualcosa che (almeno fin dalla più tenera infanzia) non avevo mai visto perché troppo indaffarato o troppo intelli gente. Era un'attenzione nuda e acritica verso ciò che da sempre avevo avuto faccia a faccia - la mia totale assenza di faccia.
In breve, tutto era perfettamente semplice, facile e immediato, al di là del ragionamento, del pensiero e delle parole. Non sorsero domande, non vi furono richia mi al di là dell'esperienza stessa, solo la pace e una letizia tranquilla e la sensazione di essermi liberato da un fardello intollerabile.
Quando la prima meraviglia per la mia scoperta himalayana si fu un po' attenuata, cominciai a descriverla a me stesso più o meno in questi termini.
In un qualche modo; m'ero vagamente figurato me stesso come l'abitatore di questa dimora che è il mio corpo, intento a osservare il mondo attraverso le sue due finestre rotonde. Ora capisco che non è affatto così.
In questo momento, mentre stendo lo sguardo in lontanan za, che cosa c'è che mi dice quanti occhi ho qui: due, tre, cento o nessuno? In realtà su questo lato della mia facciata appare una sola finestra, spalancata e senza telaio, alla quale non è affacciato nessuno. E’ sempre l'altra persona che ha occhi e un viso che li inquadra, mai questa persona.
Esistono allora due tipi – due specie diversissime – di uomo. Il primo, di cui osservo innumerevoli esemplari, porta sulle spalle con tutta evidenza una testa (e per "testa" intendo una palla pelosa del diametro di una ventina di centimetri e con varie aperture), mentre il secondo, di cui osservo un solo esemplare, con tutta evidenza non porta sulle spalle nulla del genere. E finora avevo trascurato questa differenza così notevole! Vittima di un accesso prolungato di pazzia, di un'alluci nazione che durava da tutta la vita (e per "allucinazione" intendo ciò che dice il mio dizionario: percezione apparente di un oggetto non realmente presente), mi ero invariabilmente visto tutto sommato uguale agli altri uomini, e certo mai come un bipede decapitato ma sempre vivo.
Ero stato cieco di fronte all'unica cosa che è sempre presente e senza la quale sono davvero cieco, di fronte a questo meraviglioso sostituto della testa, a questa chiarità sconfinata, a questo vuoto luminoso e assolutamente puro, che tuttavia - più che contenere - è tutte le cose. Infatti, per quanto concentri tutta la mia attenzione, non riesco a trovare niente, qui, neanche uno schermo bianco in cui siano proiettate queste monta gne e il sole e il cielo, o uno specchio terso in cui essi siano riflessi, o una lente trasparente o una fessura attraverso cui vengano visti; e tanto meno un'anima o una mente a cui siano offerti, o un vedente (per quanto nebuloso) che sia distinguibile dalla veduta. Non si frappone nulla di nulla, neppure quell'ostacolo sconcertante ed elusivo chiamato "distanza": l'immehso cielo azzurro, il biancore orlato di rosa delle nevi, il verde scintillante dell'erba - come possono essere remote queste cose se non c'è nulla da cui essere remoto? Questo vuoto senza testa, che è qui, rifiuta ogni definizione e ubicazione: non è rotondo, non è piccolo, non è grande e non è neppure qui invece che laggiù.
(E anche se qui ci fosse una testa dalla quale misurare le distanze, un'asta che andasse di qui alla cima dell'Everest diventerebbe, se vista dalla sua estremità - e per me non esiste altro modo di vederla - un punto, un niente). In realtà queste forme colorate si presentano in tutta semplicità, senza alcuna complicazione come vicino o lontano, questo o quello, mio o non mio, visto da me o semplicemente dato. Ogni binarietà - ogni dualità di soggetto e oggetto - è svanita: non viene più inserita in una situazione che non ha posto per essa. `
Di questo tenore erano i pensieri che seguirono la visione. Tentare di mettere per iscritto l'esperienza immediata, di prima mano, in questi o in altri termini, tuttavia, sígnífica darne una rappresentazione distorta complicando ciò che è semplicissimo: anzi, più la si anatomizza, più ci si allontana dall'originale vivente. Nel migliore dei casi queste descrizioni possono ricordarci la visione (ma senza la sua fulgida consapevolezza) o invitarne una ripetizione; ma non possono trasmettere la sua qualità essenziale o assicurarne una ripetizione più di quanto il menu più appetitoso possa avere il sapore del pranzo, o il miglior libro sull'umori­smo possa far capire il sale di una barzelletta. D'altra parte, è impossibi le smettere di pensare per lungo tempo, ed è inevitabile fare qualche tentativo per collegare gli intervalli di lucidità della vita col suo sfondo confuso. Indirettamente, ciò potrebbe anche stimolare la ricomparsa della lucidità.

D.E. Harding

del non saper più quale io sono



E’ l’altro, è Borges, quello a cui capitano le cose. Io vado in giro per Buenos Aires e mi fermo, forse oramai meccanicamente, per guardare l’arco di un atrio e la porta a vetri con la griglia; di Borges ho notizie dall’ufficio postale e vedo il suo nome in una terna di professori o in un dizionario biografico. Mi piacciono gli orologi a sabbia, i mappamondi, le stampe del diciottesimo secolo, le etimologie, il sapore del caffè e la prosa di Stevenson; l’altro condivide queste simpatie ma in un modo vanitoso che le trasforma negli attributi di un attore. Sarebbe esagerato affermare che i nostri rapporti siano ostili; io vivo, io mi lascio vivere, perché Borges possa tessere la sua letteratura e quella letteratura mi giustifica. Non mi costa nulla confessare che è riuscito ad ottenere certe pagine valide, ma quelle pagine non mi possono salvare, forse perché oramai il buono non è di nessuno, neppure dell’altro, ma del linguaggio e della tradizione. D’altronde io sono destinato a perdermi, definitivamente, e soltanto qualche momento di me potrà sopravvivere nell’altro. A poco a poco sto cedendogli tutto, per quanto mi sia evidente la sua perversa abitudine di falsificare e di magnificare. Spinoza capì che tutte le cose vogliono la propria conservazione; la pietra vuole essere eternamente pietra e la tigre una tigre. Io devo rimanere in Borges, non in me (ammesso che io sia qualcuno), ma mi riconosco meno nei suoi libri che in molti altri o nel laborioso arpeggiare di una chitarra. Alcuni anni or sono ho tentato di liberarmi di lui e sono passato dalle mitologie dei sobborghi ai giochi con il tempo e con l’infinito, ma quei giochi adesso sono di Borges e mi toccherà ideare qualche altra cosa. Così la mia vita è una fuga e perdo tutto e tutto è dell’oblio, o dell’altro. Non so quale dei due scrive questa pagina.

Jorge Luis Borges

l'io della mente


the false mirror

Renè Magritte
non svegliarmi mai

mercoledì 3 novembre 2010

Fatale

Siamo saliti qui
in questo stretto cunicolo di sole
arrampicandoci per un dedalo di vicoli e viuzze, tutte
in salita,
verso un monte, certo non il Tabor, ma faticoso come il Golgota,
interminabile, come un voto religioso.

Da qui, da questa tana appena più sotto del cielo
da questa feritoia di luce scavata nel brulicante e opaco tufo
mi è difficile scorgere la Baia. Impossibile.

Tra l'isola di Procida e il capo di Posillipo, che non vedo,
si è tragicamente smarrita, arenata , la mia immaginazione.
Rien ne va plus: sto diventando cieco ANCHE nella fantasia dell'infinito.
Antro delle sirene, dicono, conchiglia del mito, canto che si sfracella da se stesso contro lo scoglio,
da cui nasce come un mitilo, una cozza, Fatale Saffo, pazza e disperata per amore!
Diventare TE.

Yes, questa, nera di seppia, è a litoranea chiara
ll'abbascio e sirene sotto o palazzo
sotto Donn’Anna
è tutto nu ciato e varricchina.
E nuie sperimentammo c’o Sole, signore dei cani,
l’ozioso ricordo dei Ciclopi – Cateratta
magiche capre di Ulisse..

Sta grotta è comm na guagliona accalorata
ha i fianchi ed il bacino denudati,
un tetto fatto di canna e di rafia.
Se si schiaccia l’occhio contro il fondo
o na recchia per udire
si vedono e si sentono
le viscere, ammalate e nere, di questo grande mare
se ne sentono i rumori, e lamiente
comme nu risentimento.
Ccà, fra Coroglio e Pusilleco,
ncopp Trentaremi,
attorno attorno o costato antico
nu specchio cu stu cunicolo e luce

Qui su, nu fatale addio, il mio
Qui ho deposto la mia lingua nobile, ogni battito del mio cuore
per questo sedicente popolo del sole
E dunque, ora vivo nella discrezione o meglio nel segreto
di me più assoluto

Un eco odo
”la tua Saffo”
“Lei sola è viva”
e io
l’ho servita in volontario servizio.
Ma mai amante mi ha così tradito
mai amore o tradimento è stato così sublime
niente.
aggio pruvato a muzzecà a passione
senza me fa vedè
standomene nascosto
chello che lascio è l’IMPOSSIBILE
scheggie, crastule, piccoli frammenti
e’ carte mie c’abbruciano, cenere.

lunedì 1 novembre 2010

tu dici è un giorno sbagliato

Oggi non ho niente da dire
a parte il fatto che la terra inghiotte anime nel suo ventre e le lacrime della gente
a parte il fatto che luciana appesa ad un filo punta il dito contro una supplenza che tarda a venire
e oggi non c'è niente da dire
oggi non ho niente da dire a parte il fatto che bruno con la sua fragile costanza prova a riacquistare una discreta scioltezza dopo anni passati ad azzannare i lacci nella sua dipendenza
e oggi non c'è niente da dire
oggi non ho niente da dire a parte il fatto che qualcuno con la pancia gonfia d'alcol ha deciso di morire di lasciarsi morire
lui non sa più neanche perchè, tanto è dura adattarsi a soffrire
e oggi non c'è niente da dire

no
forse è un giorno sbagliato dove tutto ti sembra più nero
oggi non ho niente da dire
tanto è un giorno come un altro
e chi sta sotto continua a subire
oggi non c'è niente da dire
tutto va come previsto
la borsa sale
fa poco freddo
chi s'è visto s'è visto


sabato 30 ottobre 2010

‎"..io e franco siamo gli unici ad aspettare l’ultima corsa per Napoli che tarda ad arrivare. giunti a soccavo poche parole di saluto, il suo abbraccio esageratamente forte e lungo, la sua frase: fabio, grande compagno. ma lo diceva a tutti quelli che voleva bene. e poi: il comunismo si farà! poi una risata di entrambi e un cenno di dita sul cappello."

A Franco Basile e a quella notte di ottobre del 2006, e a tutti gli altri momenti ,anche quelli assurdi, passati insieme. Un pugno alto verso il cielo.

venerdì 29 ottobre 2010



Secondo una leggenda, nella sua vita il poeta Tannhäuser trova il Venusberg (monte di Venere), il regno sotterraneo di Venere e vive con lei per un anno. Lascia quindi la dea pieno di rimorsi e intraprende un viaggio fino a Roma, per chiedere perdono al papa Urbano IV. Il papa gli ricorda che tale peccato porta alla dannazione eterna e gli promette perdono solo in caso di un miracolo: la comparsa di fiori nel suo bastone. Tre giorni dopo Tannhäuser torna a Vienna ed il bastone fiorisce.
io?_non sono più io. non voglio più essere io

mercoledì 27 ottobre 2010



un amore muto a occhi sfocati

Scusate la mia incoscienza civile

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Cecità

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Trial

di che mi si accusa? DI CHE MI SI ACCUSA?!? DI CHE MI SI ACCUSA?!?? lei non può_ LEI NON PUò_ lei non può_ LEI NON PUò FUGGIRE!


Non cercate una via d'uscita, non vi è concesso di trovarla.

sabato 23 ottobre 2010

Sarà che tutta la vita è una strada con molti tornanti,
e che i cani ci girano intorno con le bocche fumanti,
che se provano noia o tristezza o dolore o amore non so.
Sarà che un giorno si presenta l'inverno e ti piega i ginocchi,
e tu ti affacci da dietro quei vetri che sono i tuoi occhi,
e non vedi più niente, e più niente ti vede e più niente ti tocca.
Sarà che io col mio ago ci attacco la sera alla notte,
e nella vita ne ho viste e ne ho prese e ne ho date di botte,
che nemmeno mi fanno più male e nemmeno mi bruciano più.
Dentro al mio cuore di muro e metallo dentro la mia cassaforte,
dentro la mia collezione di amori con le gambe corte,
ed ognuno c'ha un numero e sopra ognuno una croce,
ma va bene lo stesso, va bene così.
Chiamatemi Mimì, chiamatemi Mimì.

Per i miei occhi neri e i capelli e i miei neri pensieri,
c'è Mimì che cammina sul ponte per mano alla figlia
e che guardano giù.
Per la vita che ho avuto e la vita che ho dato, per i miei occhiali neri,
per spiegare alla figlia che domani va meglio, che vedrai, cambierà.
Come passa quest'acqua di fiume che sembra che è ferma,
ma hai voglia se va, come Mimì che cammina per mano alla figlia,
chissà dove va.
Sarà che tutta la vita è una strada e la vedi tornare,
come la lacrime tornano agli occhi e ti fanno più male,
e nessuno ti vede, e nessuno ti vuole per quello che sei.
Sarà che i cani stanotte alla porta li sento abbaiare,
sarà che sopra al tuo cuore c'è scritto "Vietato passare",
il tuo amore è un segreto, il tuo cuore è un divieto,
personale al completo, e va bene così.
Chiamatemi Mimì, chiamatemi Mimì.

Per i miei occhi neri e i capelli e i miei neri pensieri,
c'è Mimì che cammina sul ponte per mano alla figlia
e che guardano giù.
Per la vita che ho avuto e la vita che ho dato, per i miei occhiali neri,
per spiegare alla figlia che domani va meglio, che vedrai, cambierà.
Come passa quest'acqua di fiume che sembra che è ferma,
ma hai voglia se va, come Mimì che cammina per mano alla figlia,
chissà dove va

Guardali negli occhi

Il bersagliere ha cento penne
E l'alpino ne ha una sola
Il partigiano ne ha nessuna
E sta sui monti a guerreggiare
Lassù sui monti vien giù la neve
La tormenta dell'inverno
Ma se venisse anche l'inferno
Il partigiano rimane là
Quando poi ferito cade
Non piangetelo dentro al cuore
Perché se libero un uomo muore
Non gli importa di morire

mercoledì 13 ottobre 2010

Tom,
viene cu’mme…
Te porto a chiava’
abbasc’o puorto,
te porto a piglia’ ‘stu cafè
senza zucchero…
Viene cu’mme…
Tom.
‘A ciorta toja dint’a voce,
‘a mia dint’e mane,
‘o core tuojo dint’o vino,
‘o mio dint’a chiavica…
Pigliammece ‘sta nuttata comme vene,
comme ce pigliammo ‘a vita,
‘e cavice ‘nculo,
l’arragge…
Pigliammece ‘sta murfina dint’e vene,
‘st’allucche dint’e recchie,
‘e maleparole e l’indifferenza
‘e chi ha fatto finta ‘e ce capi’,
‘e chi nun ce capisce,
‘e chi nun ce capirrà maje…
Ccà nisciuno te vo’ senti’ ‘e canta’,
nisciuno te sape,
nisciuno me sape
e tutti quanti me cunoscono:
‘e parole mie so’ ‘a munnezza lloro…
Tom.
Viene cu’mme…
Te porto ‘ncopp’e Quartieri,
te porto addò se chiagne
e po’ se ride ‘a cuntrora,
‘ncopp’a Trinità
addo’ ‘ncazzato sona sempe ‘o stesso sax,
‘ncopp’e Ventaglieri
addo’ sonano ‘nu mandulino e ‘na buatta…
Viene, che cantammo…
Ce culorano ‘e pummarole?
E che ce ne ‘mporta?
Ccà ‘e sorde nun ce stanno,
‘e pummarole so’ ‘o russo d’e ghiastemme,
‘e nuvole so’ ‘e panne stise ‘o sole amaro.
Viene, Tom…
Viene cu’mme…
Cantammo sule nuje,
cantammo sulo pe’ nuje…
No, canta sulo tu:
je nun saccio canta’,
pe’ nu mumento nun voglio stuna’,
nun te voglio fa mettere scuorno,
je piglio ‘na penna,
‘na mano pe’ foglio,
e m’assetto ‘ncopp’a ‘sti vasole sporche
a guarda’,
a sunna’…
Po’, pecchè nun ce ne jammo a magna’,
Tom?
Te porto ‘a tratturia ‘e Mullichella.
Nun pavammo.
Nun se pava si tu nun cante.
Accussì ce magnammo ‘o munno sano.
C’o bevimmo.
C’o bevimmo.
C’o bevimmo.
‘A salute ‘e chi ce vo’ male.
‘E chi nun ce vo’…
‘E chi nun ce vo’ cchiù…
Po’, quanno chiano chiano
‘a notte accummencia a tuzzulia’,
ce ne jammo…
Ce ne jammo.
Addo’ jammo, Tom ?
Ce ne jammo e basta.
Pe’ cerca’ ‘nu cane
pecchè c’adda accumpagna’,
pe’ cerca’ ‘e sta’ sule
pecchè sule nun saccio sta,
pe’ cerca’ pace
pecchè pace nun ce ne sta,
pe’ cerca’ ammore
pecchè ammore nun ce ne sta.
Tom.
Viene cu’mme…
Je pe’ tramente
vaco a piscia’…
Tu aspietteme e cuntinua a canta’…
Me sento male…
Me sento bbuono…
Cuntinua a canta’…
Agge scritto troppo veloce,
‘sti parole nun vanno niente.
Cuntinua a canta’…
‘Sti parole nun vanno niente…
Me sento male…
Nun aggia scrivere cchiù…
Quanti cazzate escono d’a vocca mia
quanta notte e quanta alcol d’a vocca toja…
‘Sti parole nun vanno niente…
Rieste cu’mme…
Nun voglio cchiù a nisciuno…
Stanotte e pe’ sempe…
Dimane ‘e quatte,
quanno ce scetammo,
po’ rerimmo…
Po'...
Mo’ mbriacammece,
Tom.
Mo’, Tom!!!
‘Mbriacammece!!!
Mo'...


A Tom Waits e a me.

sabato 9 ottobre 2010

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire

martedì 5 ottobre 2010

la tentazione di esserci

Chi non ha mai immaginato di uccidersi si deciderà a farlo più prontamente di chi non smette di pensarci. Poiché ogni atto cruciale è più facile da compiersi per assenza di riflessione che per esame, lo spirito vergine di suicidio, non appena vi si senta sospinto, sarà senza difesa contro la pulsione subitanea, sarà accecato e scosso dalla rivelazione di una via d'uscita definitiva, mai considerata fino a quel momento; l'altro, invece, potrà sempre ritardare un gesto indefinitamente pesato e soppesato, un gesto ch'egli conosce a fondo, al quale si deciderà senza passione – se mai si deciderà.
e.m.c.

domenica 3 ottobre 2010

se cerco la data più mortificante per l'orgoglio dello spirito, se scorro l'inventario delle intolleranze, non trovo niente di paragonabile a quell'anno 529 in cui, per ordine di Giustiniano, fu chiusa la Scuola di Atene. Soppresso ufficialmente il diritto alla decadenza, credere diventa un obbligo… È il momento più doloroso nella Storia del Dubbio.
(EmilCioran 1949)


"La scuola di Atene" dipinto del 1511 di Raffaello Sanzio

dall'orlo estremo di qualche età sepolta

'Al culmine della disperazione'

Ci sono due modi di sentire la solitudine: sentirsi soli al mondo o avvertire la solitudine del mondo. Chi si sente solo vive un dramma puramente individuale; il sentimento dell'abbandono può sopraggiungere anche in una splendida cornice naturale. In tal caso interessa unicamente la propria inquietudine. Sentirti proiettato e sospeso in questo mondo, incapace di adattarti ad esso, consumato in te stesso, distrutto dalle tue deficienze o esaltazioni, tormentato dalle tue insufficienze, indifferente agli aspetti esteriori – luminosi o cupi che siano –, rimanendo nel tuo dramma interiore: ecco ciò che significa la solitudine individuale. Il sentimento di solitudine cosmica deriva invece non tanto da un tormento puramente soggettivo, quanto piuttosto dalla sensazione di abbandono di questo mondo, dal sentimento di un nulla esteriore. Come se il mondo avesse perduto di colpo il suo splendore per raffigurare la monotonia essenziale di un cimitero. Sono in molti a sentirsi torturati dalla visione di un mondo derelitto, irrimediabilmente abbandonato ad una solitudine glaciale, che neppure i deboli riflessi di un chiarore crepuscolare riescono a raggiungere. Chi sono dunque i più infelici: coloro che sentono la solitudine in se stessi o coloro che la sentono all'esterno? Impossibile rispondere. E poi, perché dovrei darmi la pena di stabilire una gerarchia della solitudine? Essere solo non è già abbastanza?

E.Cioran 1934

sabato 2 ottobre 2010

Immobile

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell'altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.
– Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla piú che l'espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall'orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto piú profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiú il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell'inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell'eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.

Carlo Levi

mercoledì 29 settembre 2010

zena

Se lo sguardo del suo mare non finisce sul tuo corpo
Se non dondola il tuo sonno sulla samba delle onde
Se non c’è in mezzo alla gente il tuo viso che mi sente
Se non c’è la tua canzone accanto a me
Se nei vicoli non batte la tua gonna sulle gambe
Se il colore del suo cielo non allarga la tua bocca
Se il geranio non si stanca di vederti alla finestra
Se non c’è la tua carezza accanto a me

Genova non è la mia città
Non è più grigia come il vento che gonfia il cuore al marinaio

Genova non è la mia città
Non è più azzurra come il sogno del marinaio che ritorna

Se non posso raccontarti della spiaggia e della foce
Di corrado e di luigi per sentirli ancora vivi
Se non c’è in mezzo alla gente la presenza di un assente
Se non sento anche altre vite intorno a me

Genova non è la mia città

lunedì 13 settembre 2010

È questa diminuzione, è questo svuotamento dell'io, è questa abrogazione del soggetto e della storia. La storia non mi contempla, io mi rifiuto di esser nella storia, mi rifiutavo da bambino: scusatemi la mia incoscienza civile; non sono un barbaro ne un incivile ma il mio controlinguaggio è barbarico ma non è barbaro non sono un incolto non sono un incivile, sono un capolavoro.
agli oscuri monaci delle biblioteche dei Girolamini.

martedì 7 settembre 2010

Tormento

giovedì 2 settembre 2010

Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d'esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri - in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,
che m'hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d'estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell'avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognun, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

lassù, un po' di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell'estate.
Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d'incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
- sotto festoni di luci ormai sole -

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l'anima era invasa

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.

martedì 31 agosto 2010

forse le lucciole non si amano più

mercoledì 18 agosto 2010

dicono che gli angeli amano in silenzio, ed io nel tuo mi sono disperatamente perso

venerdì 6 agosto 2010

Guarda, non chiedo molto,
solamente la tua mano, tenerla
come una piccola rana che così dorme contenta.
Io ho bisogno di questa porta che aprivi
perché vi entrassi, nel tuo mondo, questo pezzetto
di zucchero verde, di tonda allegria.
Non mi presti la mano questa notte?
Tu, per ragioni tecniche, non puoi. Allora
io la tesso nell’aria, ordendo ogni dito,
e la pesca setosa della palma
e il dorso, questo paese d’alberi azzurri.
Così la prendo così la sostengo, come
se da ciò dipendesse
moltissimo del mondo,
il succedersi delle stagioni,
il canto dei galli, l’amore degli uomini.
____Julio Cortàzar_____

giovedì 5 agosto 2010

Dos gardenias para tí
Con ellas quiero decir:
Te quiero, te adoro, mi vida
Ponle toda tu atención
Proque son tu corazón y el mío.
Dos gardenias para tí
Que tendrán todo el calor de uns beso
De esos besos que te dí
Y que jamás encontrarás
En el calor de otro querer.
A tu lado vivirán y se hablarán
Como cuando estás conmigo
Y hasta creerás que te dirán:
Te quiero.
Pero si un atardecer
Les gardenias de mi amor se mueren
Es porque han adivinado
Que tu amor me ha traicionado
Porque existe otro querer.

sabato 31 luglio 2010

corsaro75

Concludo amaramente. Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Sono saltate fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli, da impiegati buffoni, da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da mercenari, da imbroglioni, da benpensanti teppisti. Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri - che sono la storia in evoluzione e la cultura precedente - alzando contro di essi una barriera insormontabile, ha finito con l'isolarli, impedendo loro, coi loro padri, un rapporto dialettico. Ora, solo attraverso tale rapporto dialettico - sia pur drammatico ed estremizzato - essi avrebbero potuto avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, «superare» i padri. Invece l'isolamento in cui si sono chiusi - come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù - li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica: e ciò ha implicato - fatalmente - un regresso. Essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre.

Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le «cose» della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere.

Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino. La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all'ordine degradante dell'orda.

ppp

sabato 24 luglio 2010

il disordine perfetto



Nel giovedì santo del 1770 a Roma il quattordicenne Mozart dà una straordinaria prova del suo genio: ascolta nella Cappella Sistina il Miserere di Gregorio Allegri e riesce nell'impresa di trascriverlo interamente a memoria dopo solo due ascolti. Si tratta di una composizione a nove voci, apprezzata a tal punto da essere proprietà esclusiva della Cappella pontificia, tanto da poter essere eseguito solo nella Cappella sistina durante la settimana santa e ritenuta così imporante da intimare la scomunica a chi se ne fosse impossessato al di fuori delle mura vaticane. L'impresa ha i caratteri dello sbalorditivo, se si pensa all'età del giovanissimo compositore e alla incredibile capacità mnemonica nel ricordare un brano che riassume nel proprio finale ben nove parti vocali.
Dopo tale impresa i salisburghesi si recarono a Napoli, dove soggiornarono per sei settimane e dove la proverbiale scaramanzia partenopea additava all'anello che portava il compositore al dito la genesi delle sue incredibili capacità musicali, tanto da costringerlo a toglierselo.

venerdì 23 luglio 2010

- natale 1993 -

ruppemi l'alto sonno nella testa
un lieve suono sentì e mi riscossi
lasciando il torpore del caldo letto
l'occhio riposato intorno mossi
dritto levato e fisso mi guardai per capir la cagion del mio risveglio
vero è che in sulla branda mi trovai
della stanza dal sole illuminata
dormito tanto avea dovuto
che la mente un po mi dolea
come se io fossi nato in quel momento
poi che alzato mi fui e ripensai un poco a dove stavo
e che un altro anno era passato
la mia mente viaggiava per i giorni che vissuti avea con tutti voi
agli errori fatti
alle prese decisioni
ai dispiaceri e gioie co passato in 16 anni
che è quanto ho vissuto
aperta poi che ebbi la porta della mia stanza
vi ritrovai nella casa sparsi
già tutti svegli ed operosi
dai muri della casa uscì un calore
e le vostre parole potei udire
fermo in su la porta io restai
a respirar quell'aria in festa
che sapea di pace e di dolcezza

auguri
carlo

giovedì 22 luglio 2010

come se fossi nato in quel momento

‎...e invero, piccoli cresciuti o grandi, giovani anziani o vecchi, al buio si è tutti uguali.
buona notte biondino (elsa morante)

lunedì 19 luglio 2010

le donne odiavano il jazz...ma non si capiva il motivo

domenica 18 luglio 2010

Le torri del vento

In verità, sono pochi coloro che sanno dell'esistenza di un piccolo cervello in ciascuna delle dita della mano, in qualche punto tra falange, falangina e falangetta. Quell'altro organo che chiamiamo cervello, quello con cui veniamo al mondo, quello che trasportiamo nel cranio e che trasporta noi affinché noi trasportiamo lui, non è mai riuscito a produrre altro che intenzioni vaghe, generiche, diffuse, e soprattutto poco variate, riguardo a ciò che le mani e le dita dovranno fare. Se, per esempio, al cervello della testa è venuta l'idea di una pittura, o di una musica, o una scultura, o un brano letterario, o una statuina di terracotta, lui non fa altro che manifestare il desiderio e rimanere poi in attesa, a vedere cosa succede. Solo perché ha trasmesso un ordine alle mani e alle dita, crede, o finge di credere, che questo era tutto ciò di cui c'era bisogno perché il lavoro, dopo un certo numero di operazioni eseguite dalle estremità delle braccia, si presentasse fatto. Non ha mai avuto la curiosità di domandarsi per quale ragione il risultato finale di codesta manipolazione, sempre complessa persino nelle sue espressioni più semplici, assomigli tanto poco a quello che aveva immaginato prima di dare istruzioni alle mani. Si noti che, quando nasciamo, le dita non hanno ancora un cervello, che ci si va formando a poco a poco con il passare del tempo e l'aiuto di ciò che vedono gli occhi. L'aiuto degli occhi è importante, tanto quanto l'aiuto di ciò che da essi viene visto. Ecco perché quanto di meglio le dita hanno sempre saputo fare è stato proprio rivelare l'occulto. Quello che nel cervello potrebbe essere percepito come scienza infusa, magica o soprannaturale, qualsiasi cosa significhino soprannaturale, magico e infuso, sono state le dita e i loro piccoli cervelli a insegnarglielo. Perché il cervello della testa sapesse cos'era la pietra, prima c'è stato bisogno che le dita la toccassero, ne sentissero l'asperità, il peso e la densità, c'è stato bisogno che vi si ferissero. Solo molto tempo dopo il cervello ha capito che da quel pezzo di roccia si sarebbe potuta fare una cosa che avrebbe chiamato coltello e una cosa che avrebbe chiamato idolo. Il cervello della testa è sempre stato in ritardo per tutta la vita rispetto alle mani, e anche ai nostri giorni, quando ci sembra che le abbia oltrepassate, sono ancora le dita che devono spiegargli le investigazioni del tatto, il fremito dell'epidermide quando sfiora la creta, l'acuta lacerazione dello scalpello, la morsa dell'acido sulla piastra, la vibrazione sottile di un foglio di carta disteso, l'orografia delle tessiture, la trama delle fibre, l'abbecedario in rilievo del mondo. E i colori. Per dovere di verità bisogna dire che, di colori, il cervello se ne intende assai meno di quanto creda. Certo è che riesce a vedere più o meno chiaramente ciò che gli occhi gli mostrano, ma per lo più soffre di quelli che potremmo definire problemi di orientamento ogni volta che arriva il momento di convertire in conoscenza quanto ha visto. Grazie all'inconsapevole sicurezza di cui la durata della vita ha finito per dotarlo, pronuncia senza esitare i nomi dei colori che chiama elementari e complementari, ma immediatamente si perde, perplesso, dubbioso, quando tenta di formare delle parole che possano servire da etichette o distici esplicativi di qualcosa che tocca l'ineffabile, di qualcosa che sfiora l'indicibile, quel colore non ancora del tutto nato che, con l'assenso, la complicità e non di rado la sorpresa degli stessi occhi, le mani e le dita vanno creando e che probabilmente non arriverà mai a ricevere il suo giusto nome. O forse già lo possiede, ma soltanto le mani lo conoscono, perché hanno composto la tinta come se stessero scomponendo le parti costitutive di una nota musicale, perché si sono sporcate nel suo colore e hanno serbato la macchia nel più profondo del derma, perché solo con quel sapere invisibile delle dita si potrà mai dipingere l'infinita tela dei sogni. Fidandosi di ciò che gli occhi hanno ritenuto di aver visto, il cervello della testa afferma che, secondo la luce e le ombre, il vento e la calma, l'umidità e la secchezza, la spiaggia è bianca, o gialla, o dorata, o grigia, o purpurea, o una cosa qualsiasi tra questo e quello, ma poi vengono le dita e, con un movimento di raccolta, come se stessero mietendo una messe, rialzano dal suolo tutti i colori che ci sono al mondo. Ciò che sembrava unico era plurale, ciò che è plurale lo sarà ancora di più. Non è men vero, tuttavia, che nell'esaltata folgorazione di un solo tono, o nella sua musicale modulazione, sono presenti e vivi tutti gli altri, tanto le tonalità dei colori che hanno già un nome quanto quelle di quei colori che ancora lo attendono, proprio come una distesa in apparenza liscia potrà coprire, nel mentre che le manifesta, le tracce di tutto il vissuto e accaduto nella storia del mondo. Tutta l'archeologia di materiali è un'archeologia umana. Ciò che questa creta nasconde e mostra è il transito dell'essere nel tempo e il suo passaggio negli spazi, i segni delle dita, i graffi delle unghie, le ceneri e i tizzoni dei fuochi spenti, le ossa proprie e altrui, i cammini che eternamente si biforcano e si vanno distanziando e perdendosi l'un l'altro. Questo granello che affiora alla superficie è una memoria, questa depressione il marchio che è rimasto di un corpo sdraiato. Il cervello ha domandato e chiesto, la mano ha risposto e fatto.

jose saramago

mercoledì 14 luglio 2010

martedì 6 luglio 2010

don't let me be misunderstood

Baby mi capisci adesso?
A volte mi sento una piccola pazza
beh non sai che nessun vivente
può essere sempre un angelo?

Quando le cose vanno male
sembro essere cattivissima
sono solo un'anima
le quali intenzioni le ha
buone,
oh Signore, per favore
non fare in modo che io sia fraintesa.

Baby a volte sono così spensierata
con una gioia che è difficile da
nascondere
e sembra che tutto quello
che ho sono preoccupazioni
e dopo tu
sei obbligato a vedere l'altra parte di me
se sembro essere nervosa,
voglio che
tu sappia che io non avrei mai intenzione
di prendermela con te,
la vita ha i suoi
problemi e li devo dividere con gli altri
e questa è una cosa che non vorrei
mai fare
perchè ti amo.

i'm your man

Se vuoi un amante
Farò ogni cosa che mi chiederai
E se vuoi un altro tipo d'amore
Vestirò una maschera per te
Se vuoi un partner
Prendimi la mano
O sei vuoi abbattermi mentre sei in collera
Sono quì
Sono il tuo uomo

Se vuoi un pugile
Salirò sul ring per te
Se vuoi un dottore
Ti esaminerò ogni centimentro
Se vuoi un pilota
Salta dentro
O se vuoi usarmi per un giro
Sai che puoi
Sono quì

Ah, la luna è troppo brillante
La catena troppo stretta
La bestia non andrà a dormire
Stavo scorrendo le promesse che ti ho fatto
E che non posso mantenere
Ah ma un uomo non avrà mai una donna indietro
Non di certo mendicando sulle ginocchia
Oh striscierei fino a te ragazza
E cadrei ai tuoi piedi
E ululerei alla tua bellezza
Come un cane in calore
E graffierei il tuo cuore
E strapperei la tua coperta
Direi per favore, per favore
Sono il tuo uomo

E se dovrai dormire
Un momento sulla strada
Io guidero' per te
E se vorrai lavorare sulla strada da sola
Scomparirò per te
Se vuoi un padre per il tuo bambino
O solo camminare con me qualche istante
Sopra la sabbia
Sono il tuo uomo

Se vuoi un amante
Farò ogni cosa mi chiederai
E se vuoi un altro tipo d'amore
Vestirò una maschera per te
nuotare sott'acqua e trattenere il fiato

lunedì 5 luglio 2010

il mestiere di scrivere

In sei mesi
Non ho letto un libro
a parte una cosa intitolata La ritirata da Mosca
di Caulaincourt.
Comunque sono contento.
Vado in macchina con mio fratello,
beviamo una pinta di Old Crow.
Non abbiamo in mente nessuna meta,
andiamo e basta.
Chiudessi gli occhi per un minuto
Ecco, sarei perduto, ma
potrei stendermi e dormire per sempre
sul ciglio della strada.
Mio fratello mi dà di gomito.
Tra un minuto , chissà, accadrà qualcosa

r.carver 1989

domenica 4 luglio 2010

mercoledì 30 giugno 2010

un continuo borbottio sommerge ogni tipo di ingiunzioni come l'inevitabile marea con la sabbia appena asciugatasi; e dovunque c'è un roteare di occhi e un mormorio esagerato di segreti cospirativi.

venerdì 25 giugno 2010

Rione terra

martedì 22 giugno 2010

Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo la mattina, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.

Imaginaria di carta

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

venerdì 18 giugno 2010

José de Sousa Saramago

Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, E' arrivato il mio turno, pensò. La paura gli fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lí.

martedì 8 giugno 2010

la donna con il fiore

Elle était fort déshabillée
Et de grands arbres indiscrets
Aux vitres jetaient leur feuillée
Malinement, tout près, tout près.

Assise sur ma grande chaise,
Mi-nue, elle joignait les mains.
Sur le plancher frissonnaient d'aise
Ses petits pieds si fins, si fins.

- Je regardai, couleur de cire
Un petit rayon buissonnier
Papillonner dans son sourire
Et sur son sein, - mouche ou rosier.

- Je baisai ses fines chevilles.
Elle eut un doux rire brutal
Qui s'égrenait en claires trilles,
Un joli rire de cristal.

Les petits pieds sous la chemise
Se sauvèrent : "Veux-tu en finir!"
- La première audace permise,
Le rire feignait de punir!

- Pauvrets palpitants sous ma lèvre,
Je baisai doucement ses yeux:
- Elle jeta sa tête mièvre
En arrière : "Oh ! c'est encor mieux!...

Monsieur, j'ai deux mots à te dire..."
- Je lui jetai le reste au sein
Dans un baiser, qui la fit rire
D'un bon rire qui voulait bien...

- Elle était fort déshabillée
Et de grands arbres indiscrets
Aux vitres jetaient leur feuillée
Malinement, tout près, tout près.

- Arthur Rimbaud

calamita

nu tip' e malatia ca nun s'è mai capit'

salitaconcordia37

Avevo dimenticato i piccoli esseri che incontravo tutti i giorni per i vicoli e le rampe, le scalette e le piazzette, che congiungono i quartieri alla collina verde
Avevo dimenticato la gran vita dei folli, gli storpi i deformi i muti, i vecchi ritornati piccini, i piccini divenuti anime perdute
e le case di allora senza ascensore avevo dimenticato
alte e tristi, talvolta irradiate di misteriosa gioia
sempre piene di euforia e di suoni e di canti
Spesso tremavano la notte quelle case per il vento improvviso
Mentre risuonavano dei passi nelle stanze che non sarebbe stato certo normale avvertire in quelle ore tarde
Perché vi erano case qui un tempo dove si sentiva
si sentiva si
(e io non ho mai capito se si trattasse di esseri umani o di poveri animali di bambini malati o di vecchi sofferenti)
qualche gemito qualche sospiro profondo
richiami spezzati subito spenti...
Sentivo che una parte della popolazione presente era di anime morte
Anime di ritornanti
Se nella realtà fisica ritornanti oppure in quella generazionale
o nelle realtà fantastica soltanto
io non sapevo
Solo sapevo che il popolo dei vecchi piccini degli inutili i deformi gli abbandonati gli antichissimi
Appariva e scompariva
Scompariva e riappariva
Di continuo

Anna maria ortese

venerdì 28 maggio 2010

eresia un è mondo il cambiare

rembò

Nelle azzurre sere d'estate, andrò per i sentieri,
punzecchiato dal grano, calpestando erba tenera:
trasognato sentirò quella frescura sotto i piedi
e lascerò che il vento m'inondi il capo nudo.

non dirò niente, non penserò più a nulla: ma
l'amore infinito mi salirà nell'anima,
e me ne andrò lontano, molto lontano come uno zingaro,
nella Natura, felice come con una donna.

- marzo 1870

domenica 16 maggio 2010

martedì 11 maggio 2010

commediadell'arte e viceversa

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette... sette passi.
Poco più di cinque metri. Calcoliamo il doppio per misurare la metà del cortile: dieci. Bè, il cortile di un palazzo antico come questo è sempre quadrato: venti per venti. E' un bel cortile!
Si potrebbe fare un discreto teatro. Quattrocento, cinquecento posti si tirerebbero fuori...
Il resto, palcoscenico. Ma nemmeno un palcoscenico vero e proprio; una pedana sarebbe sufficiente.
In fondo, il capannone non aveva che trecento posti a sedere.
E il palcoscenico che era?
Un boccascena di sei metri, questo è tutto. Sei metri, per quattro di profondità. Ho recitato quello che ho voluto, su quei pochi metri quadrati!
Tutto Shakespeare e tutto Molière. Duemila anni di teatro si possono recitare su pochi metri quadrati di tavole. Perché, contano qualche cosa gli scenari?
Quali scenari ho mai avuto io?
Pochi stracci dipinti da me stesso, alla buona, con quattro pennellate. Il torrione del castello, la sala del trono, la foresta... tutto lì!
E il sipario? Una tendaccia che non scorreva mai liberamente: s'imbrogliavano le corde, s'impicciavano gli anelli...
E il pubblico non diceva niente.
"Pubblico rispettabile, perdonate l'incidente", e la chiusura della tenda la completavo io, vestito da Otello, da servo, da principe di Danimarca.
Che conta?
Una sera, la chiusura del sipario l'ha dovuta completare mia figlia, vestita da Ofelia. Mio figlio Gualtiero, nei panni di Romeo, non dovette inchiodare la ringhiera del balcone di Giulietta, che si era schiodata?
"Pubblico rispettabile, due minuti di pazienza, se no la povera Giulietta la portiamo al pronto soccorso".
Una risata, un applauso, quattro colpi di martello e l'attore riprende la scena dal punto in cui l'ha lasciata.
Se gli riesce, e questo è affare suo, ristabilisce tra sé e il pubblico l'incantesimo del teatro.
Gli attori della mia generazione li creavano apposta gli incidenti a teatro, per dare al pubblico la sensazione dell'imprevisto.
E proprio questo imprevisto che eleva il teatro a forma d'arte sublime, singolare, unica. Qualunque sforzo tecnico e finanziario che si può compiere per rendere il più possibile realistica una messa in scena potrà incuriosire il pubblico,
ma lo lascerà sempre scontento di non avere potuto usare l'immaginazione.
Le strade vere, le piazze vere, gli alberi, i saloni autentici, l'ampiezza di un panorama di montagna, di campagna, di mare... tutto questo lo spettatore lo pretende dal cinematografo... ma a teatro, la fantasia del pubblico, sollecitata dalla parola del poeta, se le crea come vuole e come le vede lui le scene in cui si svolge una determinata azione.
[...] ognuno per conto proprio e in conformità dei propri gusti, della propria sensibilità e perfino dello stato d'animo che attraversa in quel momento...
Quante volte, attaccandomi i baffi di Macbeth - io lo faccio coi baffi, Macbeth -, me li sono attaccati intenzionalmente appena appena un poco storti, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione...

E.d.F.

sabato 8 maggio 2010

mODì

distruggere napoli

Abiura
di
Imaginaria

martedì 4 maggio 2010

vento di mare

M

L'intelligenza non avrà mai peso, mai, nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager tu otterrai, da una dei milioni d'anime della nostra nazione un giudizio netto, interamente indignato. Irreale è ogni idea irreale ogni passione di questo popolo ormai dissociato da secoli la cui soave saggezza gli serve a vivere, non lo ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza, alzare la mia sola, puerile voce non ha più senso. La viltà, avvezza a veder morire nel modo più atroce gli altri con la più strana indifferenza. Io muoio, e anche questo mi nuoce.

mercoledì 28 aprile 2010

con 24mila baci

vivono, ma dovrebbero esser

martedì 27 aprile 2010

la ragione di un sogno

Caro ragazzo, sì, certo, incontriamoci,
ma non aspettarti nulla da questo incontro.
Se mai, una nuova delusione, un nuovo
vuoto: di quelli che fanno bene
alla dignità narcissica, come un dolore.
A quarant'anni io sono come a diciassette.
Frustrati, il quarantenne e il diciassettenne
si possono, certo, incontrare, balbettando
idee convergenti, su problemi
tra cui si aprono due decenni, un'intera vita,
e che pure apparentemente sono gli stessi.
Finché una parola, uscita dalle gole incerte,
inaridita di pianto e voglia d'esser soli —
ne rivela l'immedicabile disparità.
E, insieme, dovrò pure fare il poeta
padre, e allora ripiegherò sull'ironia
— che t'imbarazzerà: essendo il quarantenne
più allegro e giovane del diciassettenne,
lui, ormai padrone della vita.
Oltre a questa apparenza, a questa parvenza,
non ho niente altro da dirti.
Sono avaro, quel poco che possiedo
me lo tengo stretto al cuore diabolico.
E i due palmi di pelle tra zigomo e mento,
sotto la bocca distorta a furia di sorrisi
di timidezza, e l'occhio che ha perso
il suo dolce, come un fico inacidito,
ti apparirebbero il ritratto
proprio di quella maturità che ti fa male,
maturità non fraterna. A che può servirti
un coetaneo — semplicemente intristito
nella magrezza che gli divora la carne?
Ciò ch'egli ha dato ha dato, il resto
è arida pietà.

mercoledì 21 aprile 2010

malandrini

Roma, primi anni Settanta: un uomo solo dentro una piazza deserta. E intorno un ronzio di voci, un crepiti' o di slogan... Quell' uomo, con lo sguardo celato dietro un paio d' occhiali scuri, e' Pier Paolo Pasolini: ha le spalle poggiate contro un muro e le braccia annodate sul petto. Se ne sta li' , in silenzio, mentre il ronzio diventa tuono e il fiume di ragazzi comincia a tracimare nella piazza, fino a sommergerla. Ci sono immagini che il tempo non consuma. Erri De Luca, Pasolini lo rammenta cosi' . "Lo incontrai quella volta e mai piu' . Era una manifestazione organizzata da Lotta Continua ed io stavo nelle prime file del corteo, quelle che servivano a scoraggiare le confidenze del nemico . racconta .. Nella piazza destinata al comizio finale non si scorgeva anima viva: c' era soltanto quell' uomo fermo in un angolo. All' epoca, non eravamo teneri col vicinato: avremmo scacciato con la forza chiunque altro, ma non Pasolini. Ci colpiva il suo coraggio fisico: venire ad osservarci e a giudicarci li' dove nessun altro estraneo avrebbe mai messo piede... E poi chissa' , forse gia' allora ci inseguiva, come un' ombra, il dubbio che avesse ragione su di noi". "Pasolini strinse con Napoli un legame fisico violento, quasi marchettaro. E non poteva essere altrimenti per uno che conosceva il prezzo dei corpi in ogni angolo del mondo. Per lui anche l' imbroglio era "scambio di sapere", al punto che perfino un tentativo di borseggio, subi' to durante un' effusione, si trasformava in occasione per rinsaldare un affetto. Qui non sarebbe mai stato ucciso in una strada abbandonata: poteva accadere soltanto a Roma. Quel che non immaginava, pero' , e' che anche questa citta' , dopo il terremoto, l' avrebbe tradito. La morte gli ha risparmiato almeno una delusione". . E' in "Gennariello" che Pasolini descrive Napoli come "l' ultima metropoli plebea, l' ultimo grande villaggio". Si tratta dell' ennesimo stereotipo modellato sull' idea di una citta' immune dal contagio della storia? "Napoli sfugge ai predicati assoluti, alle definizioni che mirano ad ingabbiarla. Chi prova a colpire il centro, manca il bersaglio. E' capitato anche a Pasolini. Lui, pero' , aveva una botola segreta che, in genere, gli intellettuali non posseggono: conosceva il corpo. E questa, forse, rimane l' unica citta' dove la fisiognomica sopravvive all' erosione dei lineamenti. Qui le persone hanno ancora una faccia. Ecco, credo che Pasolini amasse soprattutto quest' aspetto di Napoli: basterebbe ricordare la lunga galleria di volti che scandisce il "Decameron", la maschera di Toto' in "Uccellacci e Uccellini". . Anche di "Gennariello", lo scrittore disegna in primo luogo i tratti del viso, la sagoma del corpo "stretto di fianchi e solido di gamba". Il ritratto, insomma, di uno scugnizzo da oleografia. "Certo, ma tutto il rapporto fra Pasolini e Gennariello sa di falso. Se ti metti dalla parte del quindicenne, non capisci una parola di quel che ti viene detto. Quel personaggio e' un pretesto, al punto che perfino il suo nome e' sbagliato: il diminutivo di Gennaro, in dialetto, e' Gennarino o Gennariniello. Lui invece se ne inventa un altro e modella il suo interlocutore plasmando la creta di un desiderio personale. Queste pagine segnano il culmine di una tensione che mira a correggere il mondo, ma rappresentano pure il fallimento di tale ambizione". . Di luterano, allora, c' e' poco in queste lettere? "Direi quasi nulla. Non c' e' la rifondazione di un nuovo cristianesimo e di una nuova lingua. E poi Lutero costruiva con i mattoni che aveva, mica se li inventava. Ci sono brani, pero' , che ancora oggi ti prendono alla gola. Come quello che parla dei "destinati a essere morti", vite salvate dal progresso della medicina. Pasolini constata che le nascite non sono piu' una benedizione in un mondo dominato dalla crescita demografica. Il suo e' un atto di accusa contro una quota della gioventu' che alla sua eccedenza numerica fa corrispondere un comportamento conformista. E' un' invettiva totale, biologicamente fondata. E sara' poi uno di quei "destinati ad essere morti" che gliela fara' pagare. Anch' io ho fatto parte di questa quota eccedente e adesso che sono vecchio mi rigiro fra i denti quelle parole senza sapere se avesse torto o ragione". . Riaffiora l' ombra del dubbio? "La verita' e' che si tratta di un autore troppo vario per le mie forze: merita piu' cuore e intelligenza di quanto io gli possa prestare. Mi e' caro soprattutto come poeta, perche' sentiva l' obbligo di governare in modo piu' sereno le sue risorse. C' e' una poesia, "Gerarchia", che amo molto. Venne pubblicata nel ' 70 su "Nuovi Argomenti", in un numero dove comparivano anche i miei primi scritti. Un verso dice: "Accuso i vecchi di avere fatto la volonta' della vita". Pasolini non voleva che Gennariello finisse come quei vecchi. Ma Gennariello non esisteva, non esiste. Ed e' per questo che quell' accusa si vena della pieta' carnale di una madre". . Sono trascorsi vent' anni da quell' incontro in una piazza deserta: chi aveva ragione? "Non lo so. Noi abbiamo dimostrato di essere peggio di quel che sembrava a Pasolini. Ma eravamo pure l' unica possibilita' e lui non voleva concedercelo. Oggi sento la sua mancanza, come tutti quelli che hanno imparato qualcosa prendendosela con lui o prendendosela da lui. Ma avverto soprattutto la sua presenza e l' onore che ci ha fatto ad essere nostro contemporaneo. Uno come lui non c' era prima e non c' e' stato dopo. Avremmo dovuto fare qualcosa in piu' per meritarci la sua vita".

martedì 20 aprile 2010

lofiore

comizi d'amore

sabato 10 aprile 2010

rossiccio

A volte di tutto questo rimane solo una macchia di parole le tasche e le mani.
Una penna col cappuccio mordicchiato di pensieri, una penna che si dilania a scrivere sul precipizio adorato dell'infinito delle piccole cose.
Stasera questa penna confusionaria che senza religione s'aggira falsa nei misteri metropolitani
dello squallido della mia mente mi racconta la mia fanghiglia d'inchiostro ed arrangiata poesia.
Parlo del mondo intero, per questo non ho più un senso. A volte ti sussurro del cielo intero, tornando a notte, e nei miei sogni ti scrivo sulla pelle tutto il bene di cui sono capace.

#0

Strinsi le mani sotto il velo oscuro...
"Perché oggi sei pallida?"
Perché d'agra tristezza
l'ho abbeverato fino ad ubriacarlo.
Come dimenticare? Uscì vacillando,
sulla bocca una smorfia di dolore...
Corsi senza sfiorare la ringhiera,
corsi dietro di lui fino al portone.
Soffocando, gridai: "E' stato tutto
uno scherzo. Muoio se te ne vai".
Lui sorrise calmo, crudele
e mi disse: "Non startene al vento".

[a.achmatova]

banditismi

Era pericoloso
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio,alberi,strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l’ergastolo non scade ,
più vivi più ci resti.

Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.

Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.
Per affacciarsi,lacrime e sorrisi,
debbono avere un pò di intimità
perchè sono selvatici,non sanno
nascere in cattività.

Ora la puoi incontrare
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attravesa la strada,non si gira,
compagna Luna,antica prigioniera
che s’arrende alle sbarre della sera.


[Erri De Luca, Ballata per una prigioniera]

martedì 6 aprile 2010

escape with Harey

domenica 4 aprile 2010

Vento in faccia

Le prime volte sperimenti il vento che fanno i corpi in
corsa. Vedi la fuga che ti arriva contro, i tuoi scappano, tu ti
tieni su un bordo per non averli addosso. Corrono zitti, nien-
te gridi, il fiato serve tutto per le gambe. Guardi la loro corsa.
È vento in faccia, corpi di ragazzi e ragazze schizzano via, nes-
suno bada a te. Poi qualcuno dirà sì, l'ho visto, era fermo sul-
l'angolo, appoggiato al muro.

Dietro arrivano le truppe in divisa. Tu aspetti la poca ter-
ra di nessuno tra i fuggiti e quelli che rincorrono, ti stacchi
dal margine, dal muro, tiri quello che hai in mano, tiri basso
per far inciampare, poi tocca a te schizzare. Hai avuto
tempo di guardare dove ti conviene, dove hai vantaggio,
meglio se in salita. Chi insegue ha già l'affanno e si scorag-
gia a correre contro una pendenza. Anche se vuole tirarti
dietro qualche colpo, è più scomodo un bersaglio che sta
più in alto.

Hai poco vantaggio, qualche metro, ma con la sortita hai
scombinato, per qualche secondo, il loro galoppo, li hai sor-
presi. Vedono te soltanto, ma gli frulla il dubbio che ce ne
sono altri, per un altro secondo guardano intorno. E un vec-
chio vizio del timore, quello di non fidarsi dei propri sensi
in punto di concitazione. Ne profitti e guadagni metri.
Hanno capito infine che sei solo una scheggia, quella che
sbatte contro le gambe larghe di chi abbatte un albero con
l'ascia. Dietro di te scoppia la loro collera e li trascina alla
rincorsa, senti che qualcuno strilla d'acchiapparti, pensi:
meglio ancora, sprecano a gridi la riserva d'aria, in venti,
trenta metri avranno il fiato spento, si dovranno piantare in
piena corsa a rifiatare. Intanto hai scomposto il loro inse-
guimento, i tuoi sono al riparo e tu puoi rallentare, tentare
di raggiungerli nel posto successivo, già concordato in caso
di fuga. Tu: chi sei?

Sei uno che un giorno dentro una carica delle truppe sei
rimasto fermo. T'è venuto sgomento per la corsa sganghe-
rata di quelli intorno, che se uno cadeva gli altri magari gli
passavano sopra con il panico. Ti dava pena la corsa goffa di
molte ragazze che allora non andavano in palestre e per i
parchi a fare allenamenti. Quand'è toccato a te d'essere gio-
vane, e giovane di strada, lo sport era stato l'ora di educa-
zione fisica in un camerone di scuola. I ragazzi sapevano
correre perché giocavano a palla nella Villa Comunale,
interrotti dai vigili urbani. Le ragazze non sapevano corre-
re. Imparavano allora, nelle manifestazioni attaccate, affumicate, inseguite.

[erri de luca]

sabato 3 aprile 2010

grayskull

non saper dire addio porta alla perdita di parti molto importanti del corpo, come le braccia o le orecchie. vorrei essere lontano a volte, come se esistessero luoghi in cui alla mente non arrivano timori di conoscere troppo e di non sapere nulla.

lunedì 29 marzo 2010

sogno e follia

....l’interesse di Foucault è volto al spere concepito come esperienza, ossia come pratica in cui si vengono a costituire tanto il soggetto quanto l’oggetto.
Egli prende come esempio i suoi studi sulla follia, in cui ha cercato di individuare le ragioni per cui essa è diventata in occidente un preciso oggetto di analisi scientifica solo a partire dal 18secolo, le modalità con le quali nel momento stesso in cui si costituiva l’oggetto follia, prendeva forma anche il soggetto ritenuto capace di riconoscere la follia.
Viene proposta una critica della psicoanalisi, ritenuta colpevole di dissolvere i rapporti dell’uomo con il suo ambiente; la malattia mentale è presentata come una conseguenza delle contraddizioni sociali nelle quali l’uomo si è storicamente alienato.
Foucault concepisce il sogno come una forma specifica di esperienza, secondo una tradizione ormai dimenticata, criticando l’Interpretazione dei sogni di Freud, che è mosso invece dal tentativo di garantire la presa di possesso del sogno da parte della coscienza.
La peculiarità del sogno sta invece nel fatto che esso mette in luce la libertà originaria dell’uomo, la nascita del mondo nel movimento stesso dell’esistenza....

da Antologia - Foucault
introduzione di V.Sorrentino

domenica 28 marzo 2010

notrav

stati di abbandono

nidi

martedì 23 marzo 2010

il peso della farfalla

In te sono stato albume, uovo, pesce,
le ere sconfinate della terra
ho attraversato nella tua placenta,
fuori di te sono contato a giorni.

In te sono passato da cellula a scheletro
un milione di volte mi sono ingrandito,
fuori di te l’accrescimento è stato immensamente meno.

Sono sgusciato dalla tua pienezza
senza lasciarti vuota perché il vuoto
l’ho portato con me.

Sono venuto nudo, mi hai coperto
così ho imparato nudità e pudore
il latte e la sua assenza.

Mi hai messo in bocca tutte le parole
a cucchiaini, tranne una: mamma.
Quella l’inventa il figlio sbattendo le due labbra
quella l’insegna il figlio.

Da te ho preso le voci del mio luogo,
le canzoni, le ingiurie, gli scongiuri,
da te ho ascoltato il primo libro
dietro la febbre della scarlattina.

Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze,
a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco,
a finire le parole crociate, ti ho versato il vino
e ho macchiato la tavola,
non ti ho messo un nipote sulle gambe
non ti ho fatto bussare a una prigione
non ancora,
da te ho imparato il lutto e l’ora di finirlo,
a tuo padre somiglio, a tuo fratello,
non sono stato figlio.
Da te ho preso gli occhi chiari
non il loro peso,
a te ho nascosto tutto.

Ho promesso di bruciare il tuo corpo
di non darlo alla terra. Ti darò al fuoco
fratello del vulcano che ci orientava il sonno.

Ti spargerò nell’aria dopo l’acquazzone
all’ora dell’arcobaleno
che ti faceva spalancare gli occhi.

[Erri De Luca]

rayuela

Tocco la tua bocca, con un dito tocco l’orlo della tua bocca, la sto disegnando come se uscisse dalle mie mani, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta chiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare, ogni volta faccio nascere la bocca che desidero, la bocca che la mia mano sceglie e ti disegna in volto, una bocca scelta fra tutte, con sovrana libertà scelta da me per disegnarla con la mia mano sul tuo volto, e che per un caso che non cerco di capire coincide esattamente con la tua bocca che sorride sotto quella che la mia mano ti disegna.
Mi guardi, mi guardi da vicino, ogni volta più vicino e allora giochiamo al ciclope, ci guardiamo ogni volta più da vicino e gli occhi ingrandiscono, si avvicinano fra loro, si sovrappongono e i ciclopi si guardano, respirando confusi, le bocche si incontrano e lottano tepidamente, mordendosi con le labbra, appoggiando appena la lingua sui denti, giocando entro i loro recinti dove un’aria pesante va e viene con un profumo vecchio e un silenzio. Allora le mie mani cercano di affondare nei tuoi capelli, carezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranza oscura. E se ci mordiamo il dolore è dolce, se ci soffochiamo in un breve e terribile assorbire simultaneo del respiro, questa istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare stretta a me come una luna nell’acqua.

J. Cortazar (il gioco del mondo)

[#]

la coppola del nonno

lunedì 22 marzo 2010

a te ho nascosto tutto

le ragioni della collera

Ti amo per le ciglia, per i capelli, ti dibatto nei corridoi
bianchissimi dove si giocano le fonti delle luci,
ti discuto a ogni nome, ti svelo con delicatezza di cicatrice,
ti vado mettendo sulla testa ceneri di lampo e nastri
che nella pioggia dormivano.
Non voglio che tu abbia una forma, che tu sia
precisamente ciò che viene dietro la tua mano,
perché l’acqua, considera l’acqua, e i leoni quando si
dissolvono nello zucchero della favola,
e i gesti, questa architettura del nulla,
che accendono le loro lampade a metà dell’incontro.
Tutta mattina è la lavagna dove ti invento e ti disegno,
pronto a cancellarti, così non sei, neppure con questi
capelli lisciati, questo sorriso.
Cerco la tua somma, il bordo della coppa
dove il vino è anche la luna e lo specchio,
cerco questa linea che fa tremare un uomo in una galleria di museo.

Per di più ti amo, e fa tempo e freddo.

Julio Cortàzar

sabato 20 marzo 2010

la sera non cantavi mai

.......
Rompevo i giocattoli. Al momento di riceverli guardavo con sospetto quegli oggetti che dovevano appartenermi. Non dava certo piacere a voi essere ricambiati dalla mia diffidenza iniziale anziché dalla gioia. L’emozione di averli mi preoccupava più che eccitarmi. Mi assicuravo dei miei diritti chiedendo: è mio? Sì, lo era, ma non aveva il senso che intendevo io, perché era collegato alle solite necessità e veniva dopo il non fare chiasso, il non sporcarsi e negli orari stabiliti. Era un mio a povere dosi, un mio da bambini, mentre invece il giocattolo mi faceva desiderare un’immensa libertà in cui lo spazio per giocare e il tempo che avrei trascorso così, erano pure quelli miei, senza confini. È mio?, chiedevo. “Sì, ma non lo rompere.” Un Natale non me ne fu comprato nessuno, perché avevo continuato a romperli tutti, quelli dell’anno prima. Vi eravate dispiaciuti e me l’avevate detto che quell’anno non me ne avreste comprati. Tu mi rimproveravi lo spreco commesso di fronte a tanti bambini che non ne avevano nessuno. Oggi ripenso anche ai sacrifici che facevate per consentirvi quelle spese, anche se non parlavate di problemi di soldi. Più tardi, e molto, capii i vostri conti striminziti che spremevate per ricavare di che imbastire un Natale. Ma da bambino non capivo quello che dicevate. Il giocattolo era mio in un modo che non sapevo dimostrare. Aveva una sua durata nella quale l’avrei conosciuto, maneggiato, lasciato. Poi finiva. Avrei dovuto riporlo in qualche posto, poi forse l’avresti regalato a qualche altro bambino come facevi con quelli della sorellina. Avrei dovuto fare così, ma mi restava invece una parte enorme della sua durata che consisteva nell’attimo della sua fine. Le cose hanno un momento in cui sono improvvisamente diverse. Un legno appena spaccato, una pietra staccata da un suo posto forse millenario: per un momento solo hanno un volto segreto conosciuto solo da chi è testimone dell’improvviso cambiamento. Per un solo momento sono così, perché dopo un secondo sono diventati vecchi di cento anni. Accadde così anche all’universo, dicono, che è invecchiato nei primi secondi della sua formazione più che nei miliardi di anni successivi. La morte non è uguale per tutte le cose: ci sono oggetti che cominciano a invecchiare solo dopo aver attraversato la morte. Un giocattolo invecchia dopo che si è rotto, dopo che è morto.
Le cose hanno un volto segreto che un bambino può scrutare. Rompevo il giocattolo: non per la insignificante curiosità di vedere cosa ci fosse dentro, come fosse fatto, ma per vedere l’attimo in cui era di colpo disfatto, prima di perdersi nell’indistinto dei suoi pezzi. Dura poco il gioco. Sapevo che durava quanto l’attimo in cui si sarebbe rotto, o che quell’attimo valeva tutta la sua durata precedente. Solo allora il gioco era di chi l’aveva avuto in mano, solo allora era mio del tutto. Solo in morte la vita è interamente di chi l’ha vissuta, e il possesso è senza donatori, senza rimproveri.
Ti parlo, mamma, che sei così giovane rispetto a me per una sera, di quest’antico tuo regalo del quale mi sembra di poter completare il possesso proprio ora. È mia la vita che mi desti? Stasera sì, è mia del tutto.
.......

da "Non ora non qui" - Erri de Luca - 1989

venerdì 19 marzo 2010

#15

meglio di me chi troverai da perdere?

la canzone dell'impossibile

La solitudine.
La pioggia che dolcemente cade sulla città
Un pomeriggio di fine inverno dopo il temporale
raggi di sole si infiltrano tra nuvole malate
di primavera

pensa a una stanza con finestre altissime
e un barlume di passato che riappare
come se il vivere fosse attaccato ai tuoi vestiti
e del prezzo che paghi come ogni soldato
che ha chiuso la vita in un bacio non dato
ma tu ora dimmi che cosa volevi da me

Ritorna l'ordine dopo il disordine
accettiamo il caos insieme all'utopia
Con la matita un giorno scrissero
la nostra storia pronta ad essere cancellata
Ma c'è una calma e un cielo così limpido
Che non mi sembra più nemmeno una città.

Verso la fine dell'inverno il pomeriggio annuncia giorni lunghi e miti
cercando un senso dove non c'è un senso è lì che t'incontrai
e ora mutano insieme a te giorni e stagioni che scendono al mare
su un letto di fiumi che parlano ancora al poeta che scrive per te

Guardiamo il mare con l'occhio implacabile
Poi ci tuffiamo tra le verdi onde
e dagli spruzzi alcune gocce si posarono laggiù
dove sull'orizzonte sta un arcobaleno
in chiave di violino.