martedì 29 marzo 2011

sabato 26 marzo 2011

La verità non sta in un solo sogno ma in molti sogni.

giovedì 24 marzo 2011

Amico fragile

- perdóno, perdóno! Tu mi perdoni,
Poi ti racconto... Un attimo.
il tempo di cogliere un fiore... chissà...
servirà da segnalibro quando rileggeremo
il mio dramma
e saremo costretti a interromperlo
per baciarci

Lei ch'è tutto il mio cuore e la mia vita
Che ne sarà a quest'ora - forse piange...
Oh, se è fuori con questo tempaccio
- troppo umana - da che storie rincasa?
E se è dentro
e non dorme per questo ventaccio,
Si figura felice a tutti i costi?

Ah, la luna! La luna m'ossessiona.
e voi non siete abbastanza intrattabile.
Sempre così a estasiarvi...

Non posso vedere le lacrime delle ragazze! Sì,
perché far piangere una ragazza
è più irreparabile che sposarla!
Perché le lacrime son tutta infanzia.
Perché le lacrime versate manifestano
semplicemente una pena così profonda,
che tutti gli anni d'incallimento sociale
e ragionevolezza scoppiano e affogano
in quella fonte riaperta dell'infanzia
della creatura primitiva, incapace di male.

ho un amico che sa raccontare la mia storia,
un amico che mi precede dappertutto
per evitarmi quelle spiegazioni che m'ammazzano.
Una volta a casa, uomini e donne a coppie
ammireranno i miei scrupoli sull'esistenza,
ma non li imiteranno nemmeno per sogno,
e non se ne vergogneranno affatto a quattr'occhi,
da uomo amato a donna amata, in famiglia!
Più tardi mi s'accuserà d'aver fatto scuola.
E quest'epoca non c'entra nemmeno un po'.

Si fa tardi. A domani i baci e le teorie...
una mattina come questa. a Mont Saint Michel. cavallo armatura fiori gialli e un cielo velato.
Noi, dolce parola

sabato 19 marzo 2011

venerdì 18 marzo 2011

Tra gli anni 70 e 80 ci furono grandi cambiamenti politici, di costume, di linguaggio e del teatro.
Teatro della crisi. Crisi di valori, di ideologie, di linguaggio. Ma anche crisi del teatro di testo, con la convinzione che nulla può essere scritto, ma che si può soltanto riscrivere e reinventare la parola.
Un ansia che è comune in tutta Europa: riciclare dentro storie del presente materiali già noti, rileggere tragedie alla luce del presente, distruggere i miti, destrutturare trame e personaggi.
Il tutto con un linguaggio nuovo, spesso dialettale. Ma di un dialetto non in forma di tradizione ma di sperimentazione sul piano della scrittura.
Carlo Cecchi, Pasolini, Asor Rosa, avevano già posto il problema della lingua italiana nel teatro e della sua accademizzazione e improponibilità.
E qui entra in scena quella che viene definita Nuova Drammaturgia Napoletana (rispetto alla letteratura o al cinema, il teatro napoletano ha sempre costituito un sistema autonomo con un dialetto costruito come lingua e una propria tradizione rispetto allo scenario nazionale) ovvero un proliferare di copioni allestimenti produzioni di rilievo e premi nazionali di giovanissimi autori napoletani: fra tutti Enzo Moscato, Annibale Ruccello e Manlio Santanelli.
L'affermarsi di questo processo trova davanti a se numerosi ostacoli: difficile penetrare nel giro delle produzioni importanti, farsi notare dalla stampa nazionale, entrare nei teatri 'grandi' (Isa Danieli dirà: i nuovi testi vengono presi facilmente nei teatri alternativi, ma con poco successo di pubblico a meno di scandali, impossibile invece entrare nei teatri stabili e nel circuito ETI).
Fino ai primi premi, ai primi articoli sulla stampa locale e nazionale, che faranno emergere una realtà nuova, capace da un lato di dare ossigeno a un repertorio ormai logoro e ripetitivo, sempre più condizionato da esigenze commerciali, e che aveva esaltato solo il folklore del periodo eduardiano creando scarpettismi ed eduardismi di basso livello, dall'altra di superare la crisi delle varie forme di teatro sperimentale.
Un sintomo di questa ritrovata vitalità del teatro napoletano si può riconoscere nella riscoperta dei testi di Raffaele Viviani, riemerso dopo decenni di silenzio come d'incanto negli ultimi 20 anni, oggi massicciamente rappresentato e diventato oggetto di numerose conferenze universitarie.
Oltre a ritrovare la migliore tradizione, emergono negli stessi anni giovani autori anche nel cinema come Mario Martone (ricordiamo Morte di un matematico napoletano, o la regia de I dieci comandamenti di Viviani ai Ventaglieri di Napoli).
Questa crisi del teatro è ovviamente nazionale se non internazionale, non certo soltanto napoletana.
Una rivolta contro il teatro ufficiale, contro la drammaturgia occidentale, contro la parola. Tornano temi di avanguardia sull'immagine il corpo e il suono (emergono Ionesco, il teatro dell'Assurdo, si leggono Pinter, Genet, si rileggono 'dissacrandoli' i classici, ecc..)
Non tutto in questa 'rivolta' ha finito per distruggere il Teatro tanto contestato, spesso riuscendo soltanto a svecchiare senza cambiare i fondamenti. Oggi infatti, concluso anche questo ciclo ri-vitalizzante, gran parte del teatro di ricerca è assunto a 'genere', con i suoi gruppi noti e il suo mercato, e tutto è rientrato ed assimilato (con le dovute eccezioni).
C'è poi un filone che rivaluta il teatro di parola, riportando l'accento sull'individuo, nelle sue relazioni segrete, spesso al limite del patologico, nella dissoluzione della persona, nella perdita del suo bagaglio linguistico, in un umanità divorata dalla catastrofe della massificazione e dal consumo, senza salvezza.
In tale contesto – il ritorno alla parola ed al dramma dopo gli anni di sperimentazione – si intuisce l'importanza della nuova drammaturgia napoletana, che a quell'idea di teatro del malessere sembra appartenere per natura: il peso di una tradizione ormai troppo lontana, il degrado della città, la trasformazione culturale-antropologica.
Una ricchezza quella del teatro napoletano nei secoli, che va osservata come naturale espressione di un luogo caotico, soggetto nel tempo ad un malinteso senso di orgoglio territoriale che ne ha fatto la patria del sentimentalismo, della tuttora purtroppo fiorente 'napoletanità'.
Le opere di Ruccello, Moscato, Santanelli, affondano le loro radici non in luoghi solari classici dell'immaginaria cartolina napoletana, ma in zone d'ombra, scure, da romanzo noir.
Riprendono i classici certo, ma secondo una linea di tradimento e trasgressione, anticonsolatoria, che restituisce il dolore e il degrado, il senso collettivo e la perdita di sogno, l'angoscia che sottintende al quotidiano della città.
Se la struttura drammaturgica è la classica (trama intreccio, psicologia dei personaggi, dialoghi, atti e quadri), le vicende sono invece degenerate nel contenuto e nel linguaggio, e i personaggi deformi ancora affascinati dalla propria città sono apostoli di corruzione e rovina.
Al degradarsi di quel popolo corrisponde il deterioramento teatrale.
I testi parlano quindi una lingua più vera, che evoca i fantasmi di un popolo soggetto a tremende mutazioni.
Se già Roberto De Simone si era cimentato nel recupero della tradizione (e Annibale Ruccello aveva partecipato alle sue ricerche), questi nuovi autori indagano la metropoli, la periferia e la sottrazione selvaggia delle tradizioni e del linguaggio.
Devianza, omosessualità, sacro e profano, estasi e delitto, sangue e veleno...tratti tipici degli studi antropologici del Sud Italia, ma espressi con un linguaggio del tutto contaminato: napoletano arcaico e napoletano nuovo misto a termini dei mass media, polilinguismo con ascendenze letterarie, impennate di barocco degradato, ma un dialetto napoletano imbarbarito e imbastardito, complesso suddito e ribelle, periferico e oroglioso.

Di questo scenario Ferdinando è sicuramente il testo di maggior successo, soprattutto postumo, grazie anche alla straordinaria interpretazione di Isa Danieli e alla sua volontà di portare il testo alla ribalta.
1870, nove anni dopo la caduta del Regno delle due Sicilie, villa di campagna del vesuviano dove la baronessa Donna Clotilde Lucanegro trascorre le giornate a letto fra preghiere letture di letteratura meridionale e medicine, rifiutandosi dopo il tramonto dello splendore borbonico di compromettersi alla nuova Italia, alla sua lingua alla sua religione. Accanto a se la cugina Gesualda, giovane zitella subordinata alla baronessa. Frequentatore quotidiano della villa è Don Catellino, prete di famiglia meschino e perverso, tormentato dal furore di amori inconfessabili.
In questo scenario piomba Ferdinando, giovane e sconosciuto nipote della baronessa, che con la sua bellezza e la sua ambiguità getterà scompiglio nella vita dei personaggi, seducendo Clotilde, Gesualda e DonCatellino, per un tranello a fini economici.
Il vizio come verità di anime ammalate che si alimentano nella degradazione della carne, delirio di sensi che costringe i personaggi a sbranarsi a vicenda in una vita già depredata. Un eros privo di speranza, cupo violento, il cui approdo possibile è sempre e comunque la morte.
Il prete fa confusione fra eresia e profanazione, il desiderio soppresso di Clotilde nella finta malattia, l'angoscia di Gesualda. Un universo segreto che travolge la banalità del quotidiano.
In tutto questo i richiami storici sono tantissimi: Reppone, Trinchera, Perrucci, Lucanigro, e ovviamente la metafora Ferdinando/Filiberto.
L'ironia dei nomi ripropone la vecchia ferita fra i piemontesi invasori e i Borbone di Napoli, la lacerazione fra nord e sud, la decadenza di una classe e di una tradizione, con l'incalzare di una generazione senza storia, sullo sfondo di una città allo sbando, in disfacimento.
In questo confuso 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia, fra nostalgie borboniche, patriottismi, nazionalismi, e federalismi, forse Ferdinando può aprire una discussione sulla cultura del Sud, se esiste ancora, in che relazione sta con le espressioni nazionali, che forme particolari si producono e di che valore.
Oltre a denunciare la crisi del passaggio storico, della mancata unificazione reale, vi è l'espressione di una cultura dove le parole hanno ancora un senso.
E in questo forse l'influenza del pensiero di Eduardo sulla 'Parola' è notevole.
Abbandono del comico, costruzione di un falso metaforico, l'odio per le generazioni cresciute all'ombra del potere piemontese, l'orgoglio della lingua, lo spessore culturale.
Ruccello nei suoi testi andava a toccare quasi sempre figure femminili invasate, madri padrone, figlie incinte suicide, massaie in preda alla follia, tristi insegnanti maniache, melodrammatici transessuali che agonizzavano sulle note di Patty Pravo e Mina, in un apparente normalità quotidiana che poi rivelerà invece le passione represse, i sentimenti, l'irrazionale, l'umore nero.
Ruccello le definiva 'deportate'.
Quello che già Pier Paolo Pasolini nel '74 aveva chiamato il genocidio culturale: “ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Un vero e proprio genocidio”.
La società del consumo, la società di massa delle grandi città, l'alfabetizzazione, l'informazione e la televisione, l'imbastardimento del dialetto, hanno distrutto le varie forme particolari culturali, uniformando e appiattendo ogni espressività.
Attorno a questo mondo nascono le fasce estromesse, sradicate, esistenze complesse che questo teatro della crisi andrà ad indagare.




- bibliografia di riferimento:
Dopo Eduardo – nuova drammaturgia a Napoli – Luciana Libero Guida Editore
Il rito, l'esilio e la peste – percorsi nel nuovo teatro napoletano – Enrico Fiore Ubu Libri
Teatro – Annibale Ruccello – Guida editore
Scritti inediti – Annibale Ruccello – Gremese Editore
L'angelico bestiario – Enzo Moscato - Ubulibri

giovedì 17 marzo 2011

bisogna sputarsi in faccia. continuamente. tutte le mattine, fino alla sera. dalla sera alla mattina. anche nel sonno. contraddirsi continuamente. sfuggire. non essere mai se stessi. non fermarsi mai. disapprovarsi. cambiare il mondo è un eresia perpetua. di se stessi prima di tutto. lo volete capire?
come Tiresia parlare non può più ma solo può cantare parole incomprensibili.

mercoledì 9 marzo 2011

che apprendistato questo del disapprendere.
cavaliere di un ordine misterioso, (una volta decisa la ventura) spezzerei la lancia per ricavarne una bacchetta magica, capovolgerei anch'io nel carnevale dei miei giochi il sogno al suo mondo, per fermarmi muto innanzi a lei, se solo oggi avessi avuto un cavallo un armatura uno sterminato campo di fiori.
dormi, cambiamo i fiori. di camomilla un prato. dormi. la testa è mia non la mia. sono qui. nel reliquiario dei ricordi. nel sangue delle gocce dei petali più rossi. dei gerani più riusciti. un campo di camomille, margherite. luce. ecco. se fossi un fiore, mi crederesti.

domenica 6 marzo 2011

e i tuoi occhi, i tuoi occhi

Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
sei la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d’estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro

...

Sei la mia ebbrezza,
la mia ebbrezza non è passata,
non posso farmela passare
non voglio farmela passare.
la mia testa pesante i mie ginocchi scorticati i miei stracci inzaccherati.
vado verso la luce che brilla e che si spegne,
titubando cadendo rialzandomi.

sabato 5 marzo 2011

Vurria

Dint'a na stanzulélla fredda e scura,
addó' na vota ce traseva 'o sole,
mo stóngo io sulo...e tengo na paura
ch'a poco a poco, mme cunzuma 'o core...

Paura ca mme struje 'sta malatia
senza vedé cchiù Napule,
senza vedé cchiù a te...

Vurría turná addu te,
pe' n'ora sola,
Napule mia...
pe' te sentí 'e cantá
cu mille manduline...
Vurría turná addu te
comm'a na vota,
ammore mio...
pe' te puté vasá,
pe' mme sentí abbracciá...
'Sta freva
ca nun mme lassa maje!
'sta freva
nun mme fa cchiù campá...

Vurría turná addu te
pe' n'ora sola,
Napule mia...
Vurría...vurría...vurría...
ma stóngo 'ncróce!

Stanotte, dinto suonno, si' turnata...
Mm'accarezzave, chiano, 'sta ferita...
Aggio sentuto mille serenate,
aggio sentuto Napule addurmuta...
Po', 'mmiez'a tanta nebbia, só' caduto...
senza vedé cchiù Napule,
senza vedé cchiù a te!...

Vurría turná addu te
comm a na vot, pe n'ora sola,
ammore mio
pe te putè vasà
pe me sentì abbraccià
tu sei la mia imperfezione. il mio sogno riflesso e amplificato. tu sei la mia vita dalle mani chiuse, dopo giorni di pioggia. e le labbra tutt'intorno. il mondo chiuso in una parola un volto un nome...
nella mia stanza, come in un mulino di un qualche Cervantes, ormai ogni gioia è un dolore e ogni dolore è una gioia. e ognuna di loro ora ha un nome di donna. e finisce così.
il mio amore infinito per i tuoi passi.

martedì 1 marzo 2011


V'è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento.