giovedì 26 dicembre 2013

martedì 24 dicembre 2013

tempest

Lu viecchio ceveriello è frasturnato…
 Nun ve preoccupate, e se ve fa piacere
 jatevenne int’ ‘a grotta mia, pe’ ripusà.
Faccio duje passe pe’ calmà la mente ca nun trova arricietto:
scioscia e sbatte

venerdì 20 dicembre 2013


[....] a Rosignano ci andavamo almeno una volta al mese, dai nonni.
Di mio nonno paterno ho pochi ricordi, ma tutti molto belli e silenziosi.
Una volta andammo insieme in piazza, davanti all'Arci, mi indicò una targa su un muro e mi raccontò dell'anarchico Pietro Gori e poi mi comprò un gelato. Rimasi in mezzo agli altri vecchietti, ai muratori come lui che chiacchieravano, senza annoiarmi, senza stancarmi, senza bisogno di correre o giocare, perchè davvero in quel momento il tempo si era fermato. Questo quando ancora stava bene. Perchè poi si ammalò, anche se io non capii molto bene, ero ancora un bambino. Però non usciva più, non parlava più, dimagriva e stava sempre in pigiama. Si toccava qualcosa, forse un catetere, forse una ferita d'operazione, non ricordo bene adesso, e mia nonna lo picchiava sulla mano come se fosse anche lui un ragazzino. Mi spiaceva. Una domenica pomeriggio, dopo un pranzo, mamma mi disse che loro, tutti gli adulti, dovevano fare un giro fuori. Non volevano portarmi e si inventarono che dovevo rimanere con nonno. Avevo voglia? Si. Appena uscirono tutti, i miei genitori gli zii e anche i cugini, il nonno mi sorrise, poi si alzò in piedi e mi indicò, senza parlare, perchè non parlava più, un mobile nel soggiorno. Mi avvicinai al mobile. Annuì, sorrise e indicò col dito in alto. Spuntava una scatola nera, di cuoio. Presi una seggiola e raggiunsi la scatola. Lui annuiva. Dentro c'era un vecchio cannocchiale. Lo afferrò. Mi fece cenno di seguirlo alla finestra. Mi affacciai. Eravamo al quinto piano di un palazzone della 167 di Rosignano Solvay, intorno c'erano altri edifici popolari, da un lato la Coop, dall'altro l'Aurelia e la ferrovia, davanti il mare e più indietro le immense ciminiere grigie della fabbrica. Erano ciminiere davvero enormi, e io mi ricordo che, come due imbecilli, ignari dei veleni, io e mio padre facevamo a gara a chi aveva la ciminiera più grossa: vinceva lui, perchè quelle di Rosignano erano più grandi di quelle di Scarlino e Piombino. Nonno puntò il cannocchiale, poi lo spostò di poco. Sorrise. Poi si abbassò al livello dei miei occhi, rimise a fuoco, e mi fece cenno di guardare. Ero stregato da quella situazione. Quale segreto di pirati aveva scoperto? Misi gli occhi nel cannocchiale e vidi nel casermone popolare di fronte una signora che rigovernava i piatti all'acquaio, col grembiule. Staccai gli occhi dalle lenti. Guardai nonno. Sorrideva felice. Poi portò un dito davanti al naso. "Silenzio. Non lo diciamo a nessuno". Io annuii, sorridendo. Davvero il tempo si era fermato.
[.....] (da Amianto, di Renato Prunetti)

sorgiva

se ci inoltriamo più indietro ancora per scoprire la vita sorgiva da cui è scaturita l'onda che sempre ci avvolge naufraghiamo nel buio dell'irrappresentabile.
non ci giova aver abbandonato il sussulto evanescente di ciò che vive ora,
se invece voltiamo le spalle al passato e sezioniamo ciò che ci sta di fronte per cogliere la vita mentre fluisce in noi
allora ogni volto forma corposità colore figura della vita che ci circonda sembra ovunque scomporsi in frammenti di passato.
la concretezza del mondo presente è un astrazione mascherata lungamente elaborata prima di noi e da noi
ogni fremito è una menzogna
ogni immagine un miraggio
il modello dell'integrità.
l'uomo moderno è spezzato, frammentario
ciò che la collettività si attende dall'individuo e presuppone in lui
è sempre diverso da quello che egli scopre in se stesso come autentico
sorgivo
e c'è qualcosa di più che una formica che vuol lasciare dietro di se una traccia durevole tra le apparenze
il suo strascico di cometa o di lumaca viene frantumato dal mondo umano non dalla sua ostilità ma semplicemente dalla sua estraneità
dalle sue regole dai suoi comportamenti dalle sue consuetudini.
nella collettivià l'espressione dell'individuo non riecheggia.

è tempo di mettersi in ascolto

frammenti di immagini di cinema diventano raramente ossessione, impigliate in una rete, capaci di ritornare di nascosto senza preavviso su un treno affollato.

femminile


“Si doveva schiodare il mito dalla croce infamante del sesso. Io, Don Giovanni lo sono stato. Lo sono stato nei letti sfatti, nel sudore insensato dei corpi. Lo sono stato sempre di più nell’urgenza che veniva sempre meno. Nel desiderio che mi abbandonava..”

54

riappropriazione: 'o cappiello

nu garofano d'ammore



Geografia commossa dell'Italia interna

Sono partito dalla percezione del corpo, perché il corpo mi dava pensieri, il corpo faceva salire alla testa pensieri più che sensazioni. Questi pensieri si mettono in un’area della testa che si potrebbe chiamare area dell’apprensione: è quest’area che mi porta a disperare del mio corpo, a sentirlo incapace di avvenire. Ogni corpo ha una sua idea di avvenire. Nel mio caso un’idea bruciante, pochi mesi, pochi giorni, poche ore. Questa immaginaria salute precaria s’incrocia con la reale salute precaria dei luoghi in cui vivo. E allora la ricognizione dei luoghi è il frutto di uno spostamento d’attenzione, dal sintomo del corpo al sintomo del luogo, dall’ipocondria alla desolazione. La mia scrittura non ha il rigore della scienza, non vuole e non può essere attendibile. Il primato della percezione sul concetto, del particolare sull’astrazione. Questo non deve trarre in inganno, la mira è comunque altissima e non ho bisogno di concordare con nessuno il bersaglio. La paesologia non vuole fare riassunti o postille al lavoro altrui. In un certo senso è una disciplina indisciplinata, raccoglie le voci del mondo, sente quel che vuol sentire, dice quello che vuole dire. Un lavoro provvisorio, umorale, ondivago e volatile. La vicenda si complica quando si pronuncia la parola “politica”. In questo caso la fragilità non è più una forza, ma un qualcosa che dà i nervi. Perché la politica è o dovrebbe essere un’elaborazione collettiva. Il pericolo e l’opportunità è che al punto in cui siamo arrivati anche la politica appartiene alle discipline dell’immaginario. Non si sa che strada prendere e allora si fanno arabeschi, congetture. La modernità finisce ogni giorno e ogni giorno prolunga la sua esistenza con una magia collettiva che occulta ciò che è in piena evidenza: non crediamo più alla nostra avventura su questo pianeta. Non abbiamo nessuna religione che ci tiene assieme, nessun progetto da condividere. La paesologia denuncia l’imbroglio della modernità, il suo aver portato l’umano dalla civiltà del segno alla civiltà del pegno. Navighiamo in un mare di merci, e intorno a noi è tutto un panorama di navi incagliate: le nazioni, gli individui, le idee, tutto è come bloccato in un presente che non sa volgere la sua fronte né avanti né indietro. In uno scenario del genere una politica possibile è la poesia. La poesia non è il fiore all’occhiello, è l’abito da indossare, ma prima di indossarlo dobbiamo cucirlo e prima di cucirlo dobbiamo procurarci la stoffa. La poesia ci può permettere di navigare nel mare delle merci lasciandoci un residuo di anima. La poesia è la realtà più reale, è il nesso più potente tra le parole e le cose. Quando riusciamo a radunare in noi questa forza, possiamo rivolgerci serenamente agli altri, possiamo scrivere, possiamo fare l’oste o il parlamentare, non cambia molto. Quello che conta è sentire che la modernità è una baracca da smontare. Una volta che la baracca è smontata, piano piano impareremo a guardare la terra che c’è sotto per costruire in ogni luogo non altre baracche, ma case senza muri e senza tetto, costruire non la crescita, non lo sviluppo, costruire il senso di stare da qualche parte nel tempo che passa, un senso intimamente politico e poetico, un senso che ci fa viaggiare più lietamente verso la morte. Adesso si muore a marcia indietro, si muore dopo mille peripezie per schivare la fine. E invece c’è solo il respiro, forse ce n’è uno solo per tutti e per tutto. Spartirsi serenamente questo respiro è l’arte della vita. Altro che moderno o postmoderno, altro che localismo o globalità. La faccenda è teologica. Abbiamo bisogno di politica e di economia, ma ci vuole una politica e un’economia del sacro. Ci vuole la poesia. (franco arminio)

#simapoichihaincendiatocittàdellascienza?

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)

Arturo Nicolodi

diventare adulti


 Parole, parole, parole
 Si stanno creando solchi profondi, fra chi è dentro e chi è fuori, fra giovani e adulti, fra precari e garantiti, fra possidenti e nullatenenti… Come tenere insieme i pezzi? In passato sono state le parole a saldare le generazioni, sono state orazioni civili e grandi narrazioni a tenerci insieme, a legare nel patto sociale chi è distante nelle possibilità materiali. La sensazione è che questo oggi non basti, anzi. Il marketing e la pubblicità hanno corrotto la comunicazione, la ricerca spasmodica del consenso nella società della comunicazione ha portato a promettere tutto, a disegnare sogni con le parole, alla seduzione come logica di relazione: ora si è consumato il tempo in cui i frutti maturano, le promesse si avverano, il riscontro è possibile, e il bluff è palese. L’immigrazione si è fermata, qualcuno torna indietro, i canali Mediaset non funzionano più da sirena per i più giovani perché i format sono planetari, e qui tutto è saturo, in mano ad adulti e vecchi che non arretrano dalle loro posizioni di privilegio. Per questo i ragazzi popolano la notte e il web, gli unici spazi rimasti liberi, e diffidano delle parole, del verbale degli adulti, perché tutto è già stato smentito. Anche un bambino sa che la pubblicità mente per sedurre – ma non sa che oggi preferisce costruire storie e personaggi per affiliare, per cooptare il suo immaginario – mentre dalla comunicazione istituzionale ci si attende altro, il resoconto della realtà. L’approfondimento, invece, o lo svelamento delle vicende più complesse, si avrebbe voglia di leggerlo sui giornali. Non è così: la realtà trapela da intercettazioni, disposte da magistrati e passate ai giornali, mentre le inchieste televisive sono fatte sulle libere denunce dei cittadini, ma se subisci un torto o qualcuno di caro scompare sono i carabinieri a suggerirti di “chiamare la tv”. Se siamo sempre noi cittadini a scoprire, denunciare, svelare… cosa servono le istituzioni? Ma la forza delle parole è indebolita non solo dalla mancata corrispondenza col vero nel discorso pubblico – il vero malato di questi anni – ma anche per l’innocua ipertrofia del discorso privato. Paradossalmente credo che la libera circolazione dei saperi sul web abbia depotenziato le parole, perché una lavagna infinita dove scrivere qual che si vuole quando si vuole non produce sapere. Ora che tutti abbiamo un muro e una vernice spray nel pc portatile, che ne facciamo? 

Chimica della trasformazione
 Le parole su cui vale la pena concentrare gli sforzi sono forse quelle che hanno forza trasformativa. Per me la questione oggi è come innescare meccanismi di trasformazione della realtà. Per esempio, mi è chiaro che occorre rompere l’incantesimo dello scenario di crisi, che è ricattatorio quanto quello magico del paradiso in terra, professato fino a prima. Tutto oggi è ancora raccontato in modo incombente, secondo rapporti di scala che non lasciano margini per azioni possibili: le parole della crisi creano pubblico e non attori, costruiscono sceneggiature dove le parti a disposizione sono quelle di chi attende, teme, si lamenta, diffida. È chiaro che quelle parole ingessano e congelano, fanno il gioco di chi le diffonde: sono efficaci, ma nel senso che immobilizzano una reazione civile. I ragazzi e non solo loro stanno scrivendo, tantissimo, solo che tutto questo avviene su display, quasi sempre senza la responsabilità di un discorso pubblico, ovvero senza assumersi la responsabilità delle parole, preferendola la confidenza, lo sfogo, l’evasione. Scrivere una lettera di protesta al sindaco, scrivere una “lettera alla professoressa”, redigere un manifesto di intenti, stendere lo statuto di un’associazione che combatte una causa, preparare un gruppo di ragazzi a sostenere un’intervista con un ministro…: sono esempi di pratiche di parole su cui vale la pena misurarsi, per cercare oggi dove avviene quella chimica della trasformazione. Se voglio consegnare il mio tesoro alla generazione che avviene, l’aiuto a dire con forza ed efficacia come le cose dovrebbero andare per dare a tutti cittadinanza.

 Dalle parole alle immagini
 Prima di scrivere e fare ricerche organizzavo in modo volontario rassegne di film, a Milano: orfano a mia volta di cineclub che chiudevano, volevo regalare insieme ad amici e compagni di viaggio altrettanto ai più giovani, secondo un concetto di “militanza culturale” che è impossibile spiegare anche ad un under 30. In circa 15 anni di attività, terminata verso l’anno 2000, abbiamo visto moltiplicarsi le tessere, a parità di spettatori per sera. Che cosa stava succedendo? Non c’era più il pubblico, c’erano i pubblici. Ogni rassegna, ogni film differenziava il proprio pubblico, ogni pubblico era diverso. Quello che era stato per noi – cresciuti al calduccio di un cineclub – un rapporto di fiducia e formazione in un luogo, era cambiato completamente: quello non era più un luogo di formazione, tu andavi a vedere solo ciò che conoscevi. Ho vissuto l’insorgere di una logica di consumo culturale, contro l’idea di un luogo di formazione, era l’esordio della segmentazione del target, oggi prevalente. Ciascuna ha il suo oggetto, il suo film, il suo libro e così via. Questo comporta la possibilità di mostrare cose ricercate e sofisticate che appartengono a nicchie, in grado di disporre di canali propri per accedere al proprio filone di consumo. Ma contemporaneamente questo implica l’abdicazione della programmazione culturale alla logica del target. Nella vulgata commerciale e di senso comune disponiamo oggi del paradiso in terra – “a ciascuno il suo” – ma con un po’ di lucidità ci rendiamo conto che il profilare prodotti e programma per target è regressivo, impedisce alle persone di evolvere incontrando l’inatteso, ciò che spiazza anziché confermare. Ognuno cerca ciò che conosce e ha già sperimentato, ma senza esposizione ad altro le cerchie di preferenze si restringono, ognuno si riconferma e cerca la comunità di appartenenza, la cultura produce isole di fan e non spettatori curiosi o appassionati sperimentatori.

 Self made
 L’altra dato eclatante di questi anni è la mutazione del rapporto con le immagini. Lo slogan “a ciascuno il suo” si è spinto fino all’autoproduzione, alla stagione della creatività di massa. Oggi in prima media quasi tutti i ragazzi hanno in dotazione uno smartphone con cui possono girare film, montarli, inserire effetti speciali, dal telefono stesso, e proiettarlo nella più grande sala cinematografica del mondo, youtube. Non sembra tanto la celebre “morte dell’autore” per estinzione dell’aura, ma un omicidio collettivo grazie all’autorialità di massa: il pubblico che si fa il suo cinema è qualcosa di potente dal punto di vista dell’immaginario, e forse non è che un’evoluzione della segmentazione per target, in cui ora l’aggettivo possessivo “mio” indica non tanto il film che vedi ma quello che fai. Più che della creatività – e tanto meno dell’arte – questa è l’epoca della dell’espressività, dell’autorappresentazione, il digitale ha dato in mano a tutti questa occasione. Si può essere molto perplessi sull’inflazione di immagini inutili, brutte e malfatte in circolazione sul web e messe sullo stesso piano delle altre – l’unico criterio di autorialità in internet è l’algoritmo di google, il palinsesto lo fa la prima pagina del motore di ricerca – ma dal punto di vista della ricerca questa è una novità potentissima, perché esiste una sorta di sequenza forte nella scelta di cosa metti in scena: prima te, poi i tuoi amici, le tue cose e poi – qui sta il passaggio forte, il salto – una storia. Ma prima ci sei tu e i ci sono i tuoi amici, le tue cose, e la possibilità dell’autorappresentazione è stata una trappola formidabile per i narcisismi, le frustrazioni, gli esibizionismi, i protagonismi vari di cui siamo ampiamente malati, se solo ci si presenta l’occasione.

 Che fare
 L’abbattimento di barriere all’acquisto e all’autoproduzione di immagini ha comportato l’appropriazione individuale e solitaria di un altro segmento prima condiviso, la formazione, divenuta sistematicamente fra i ragazzi autoformazione o sperimentazione fra pari: in questo mondo orfano di adulti, non solo non vai da qualcuno a chiedere una telecamera o una sala di montaggio, non senti il bisogno di cercare un interlocutore adulto o esperto per imparare, ma ti formi da solo provando a utilizzare quanto hai in mano e usando i canali educational e tutorial sul web per guardare pillole di istruzioni. Come ogni novità anche questa ha risvolti ambigui, può generare straordinari autodidatti e può legittimare la nostra stupidità che non incontra più un filtro critico: i video più visti su youtube sono sconfortanti. Sul web si possono trovare interviste a Pasolini un tempo inaccessibili ma anche le peggiori nefandezze (in questo momento il video più cliccato risulta “scoregge della gente”): è uno straordinario archivio, ma come ogni campo libero si espone a quello che una volta era il cinema di alvaro vitali, semplicemente trapiantato lì e per di più senza nemmeno la fatica di una storia, con la sola “scena madre” che tutti cercano. Per chi come me è cresciuto nei cineclub e ha provato a dare la stessa opportunità agli altri è un cambiamento epocale. Ma se provo a riprendere quella vis pedagogica, mi viene da notare due cose. Prima di tutto, chiedersi quando e come si passa dalle immagini di sé moltiplicate per quante ce ne stanno nella memoria del telefono, al desiderio di costruire una storia, cioè di raccontare. Se è legittimo e normale avere uno specchio, per me è più interessante esplorare quella soglia, capire cosa dà il clic. Secondo aspetto: più che i soldi o le tecnologie credo contino nell’epoca dell’espressività di massa le esperienze di vita. Alla fine quel mezzo in mano tua regala immagini preziose se hai una vita che ha senso, una vita che fa attrito col mondo, se hai un’urgenza di racconto. Come a dire che se ci fosse una scuola di cinema sensata ragionerebbe sulle vite dei ragazzi che hanno di fronte, sul promuovere viaggi esperienziali e incontri significativi. Infine credo sia importante – se penso agli adulti – favorire i momenti riflessivi, in cui ragioni su quello che stai facendo, ed esporre ad un’estetica, ad un immaginario e a un cinema che si possa considerare tale. La democrazia delle immagini non è formativa, la lavagna di massa non porta a selezionare il messaggio, aiutare la formazione del gusto non per target di consumo è un contromovimento importante da agire.

di Stefano Laffi
uscito su Gli asini n15

#direngeziparkı


giovedì 23 maggio 2013


sabato 11 maggio 2013

Lo specchio






Nei presentimenti non credo, e i presagi non temo. Non fuggo la calunnia né il veleno, non esiste la morte: immortali siamo tutti, e tutto è immortale. Non si deve temere la morte, né a diciassette né a settant'anni. Esistono solo realtà e luce: le tenebre e la morte non esistono. Siamo tutti ormai del mare su la riva, e io sono tra quelli che traggono le reti, mentre l'immortalità passa di sghembo. Se nella casa vivrete, la casa non crollerà. Un secolo qualsiasi richiamerò, e una casa vi costruirò. Ecco perché, con me, i vostri figli e le vostre donne siederanno alla stessa tavola la stessa per l'avo ed il nipote. Si compie ora, il futuro. E se io una mano levo i suoi cinque raggi rimarranno a voi. Del passato ogni giorno, come una fortezza, io con le spalle ho retto. Da agrimensore ho misurato il tempo, e attraversato io l'ho come gli Urali. Il mio secolo l'ho scelto a mia misura. Andavamo a Sud, sostenendo la polvere della steppa, il fumo delle erbacce. Scherzavano i grilli sfiorando i ferri dei cavalli con le loro antenne, come monaci profeti di sventura. Ma il mio destino fissato avevo alla mia sella, e ancora adesso, nei tempi futuri, come un fanciullo sulle staffe io mi sollevo. La mia immortalità mi basta, ché da secolo in secolo scorre il mio sangue... Per un angolo sicuro di tepore darei la vita di mia volontà qualora la sua cruna alata non mi svolgesse più, come un filo, per le strade del mondo.


Con straordinaria costanza mi capita di fare sempre lo stesso sogno: è come se volesse costringermi a tornare inesorabilmente in quei luoghi a me così dolorosamente cari, ad un tempo dove c’era la casa di mio nonno, nella quale vidi la luce più di 40 anni fa, proprio sulla tavola da pranzo, coperta da una bianca tovaglia inamidata. E, ogni volta che cerco d’entrare nella casa, qualcosa me lo impedisce.
...faccio spesso questo sogno, ci sono abituato. E non appena vedo le pareti di legno scurite dal tempo, e la porta socchiusa che si apre nel buio dell’ingresso, so già, anche nel sonno, che si tratta solo di un sogno, e la mia incontenibile gioia si spegne nell’attesa del risveglio. Talvolta succede qualcosa per cui smetto di sognare la casa, e... e i pini della mia infanzia... Allora mi assale la nostalgia, e io comincio ad aspettare con ansia il ritorno del sogno, nel quale mi vedrò di nuovo bambino e tornerò ad essere felice. Felice perché tutto è davanti a me, e tutto è ancora possibile.

domenica 28 aprile 2013

mercoledì 24 aprile 2013

Radice





Love bade me welcome: yet my soul drew back,
Guilty of dust and sin.
But quick-eyed Love, observing me grow slack
From my first entrance in,
Drew nearer to me, sweetly questioning
If I lacked anything.
"A guest," I answered, "worthy to be here":
Love said, "You shall be he."
"I, the unkind, ungrateful? Ah, my dear,
I cannot look on thee."
Love took my hand, and smiling did reply,
"Who made the eyes but I?"
"Truth, Lord; but I have marred them; let my shame
Go where it doth deserve."
"And know you not," says Love, "who bore the blame?"
"My dear, then I will serve."
"You must sit down," says Love, "and taste my meat."
So I did sit and eat.

martedì 23 aprile 2013

Manifesto per la soppressione dei partiti politici














Simone Weil, 1950

...quasi dappertutto – e anche, di frequente, per problemi puramente tecnici – l’operazione di
prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero.
Si tratta di una lebbra che ha avuto origine negli ambienti politici e si è espansa, attraverso tutto il
paese, alla quasi totalità del pensiero.
Non è certo che sia possibile rimediare a questa lebbra, che ci sta uccidendo, senza cominciare dalla
soppressione dei partiti politici.

mercoledì 17 aprile 2013

Mind Labyrinth



lunedì 15 aprile 2013

24


lunedì 1 aprile 2013

Pose il capo su un sasso e la sognò.


Quello che m'hai voluto dire è un rifiuto e una liberazione

Mo' volete sapere perché siete assassini? E che v' 'o dico a ffa'? Che parlo a ffa'? Chisto, mo' ce vo, 'o fatto 'e zi' Nicola... parlamme inutilmente..Parlo inutilmente? In mezzo a voi, forse, ci sono anch'io, e non me ne rendo conto. Avete sospettato l'uno dell'altro: 'o marito d' 'a mugliera, 'a mugliera d' 'o marito... 'a zia d' 'o nipote... 'a sora d' 'o frate... Io vi ho accusati e non vi siete ribellati, eppure eravate innocenti tutti quanti... Lo avete creduto possibile. Un assassinio lo avete messo nelle cose normali di tutti i giorni... il delitto lo avete messo nel bilancio di famiglia! La stima, don Pasqua', la stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che ci appacia con noi stessi, l'abbiamo uccisa... E vi sembra un assassinio da niente? Senza la stima si può arrivare al delitto. E ci stavamo arrivando. Pure la cameriera aveva sospettato di voi... La gita in campagna, la passeggiata in barca... Come facciamo a vivere, a guardarci in faccia? Aveva ragione a buonanima e zi nicola, avive ragione, zi' Nico'! Nun vulive parla' cchiù... C'aggia ffa', zi' Nico'? Tu che hai campato tanti anni e che avevi capito tante cose, dammi tu nu cunziglio... Dimmi tu: c'aggia ffa'? Parlami tu... (Si ferma perché ode come in lontananza la solita chiacchierata pirotecnica di zi' Nicola, questa volta prolungata e più ritmata) Non ho capito, zi' Nico'! (Esasperato) Zi' Nico', parla cchiù chiaro! (Silenzio. Tutti lo guardano incuriositi). Avete sentito? Comme, non avete sentito sparare da lontano? Parla più forte zì nicò! Non si capisce. E mo nun ce putimme capì cchiù...Non si capisce..M’ha parlato e nun aggio capito.

giovedì 28 marzo 2013


Mystery of faith

Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia, o più precisamente lo sarebbe senza la distanza che sia pone tra me ed essa a causa della mia imperfezione.
Da anni penso a queste cose con tutta l'intensità d'amore e d'attenzione di cui sono capace.
Questa intensità è miseramente debole, a causa della mia imperfezione, che è molto grande, tuttavia mi sembra che essa cresca sempre di più, e nella misura in cui cresce, i legami che mi uniscono alla fede diventano sempre più forti, sempre più profondamente radicati nel cuore e nell'intelligenza.
Ma nello stesso tempo anche i pensieri che mi allontanano dalla Chiesa acquistano più forza e maggiore chiarezza. Se dunque questi pensieri sono veramente incompatibili con l'appartenenza alla Chiesa, non vedo come potrei evitare di concludere che la mia vocazione è di essere cristiana fuori dalla Chiesa.
I figli di Dio non devono avere quaggiù altra patria che l’universo intero. Con la totalità delle creature ragionevoli che ha contenuto e contiene e conterrà, il nostro amore deve avere la stessa estensione attraverso tutto lo spazio. Ogni qual volta un uomo ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Crisna, Budda, Il Tao ecc. il Figlio di Dio ha risposto inviandogli lo spirito Santo e lo Spirito Santo ha agito sulla sua anima, non inducendolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma dandogli luce e nei migliori dei casi la pienezza della luce all’interno di tale tradizione.
Ma personalmente non darei mai neppure venti soldi per un'opera missionaria. Credo che per un uomo cambiare religione sia pericoloso quanto per uno scrittore cambiare lingua. La religione cattolica contiene esplicitamente verità che altre religioni contengono in modo implicito. E, inversamente, altre religioni contengono esplicitamente verità che nel Cristianesimo sono soltanto implicite. Il cristiano meglio istruito può imparare ancora molto sulle cose divine anche da altre tradizioni religiose, sebbene la luce interiore possa anche fargli percepire tutto attraverso la propria tradizione. E tuttavia, se le altre tradizioni sparissero dalla faccia della terra, la perdita sarebbe irreparabile. I missionari ne hanno già fatte sparire troppe.
San Giovanni della Croce paragona la fede a dei riflessi d'argento, ma la verità è l'oro. Le diverse tradizioni religiose autentiche sono differenti riflessi della stessa verità, e forse in ugual misura preziosi. Ma di questo non ci si rende conto, perchè ciascuno vive una sola di queste tradizioni e percepisce le altre dall'esterno.
E' come se due uomini posti in due camere comunicanti, vedendo entrambi il sole attraverso la propria finestra e il muro del vicino illuminato dai raggi, credessero entrambi di essere l'unico a vedere il sole e che l'altro ne riceva soltanto un riflesso.

Poiché in occidente la parola Dio, nel suo significato corrente, disegna una persona, quegli uomini nei quali l’attenzione, la fede e l’amore si applicano quasi esclusivamente al perfetto impersonale di Dio, possono credere e dirsi atei, sebbene l’amore soprannaturale abiti nella loro anima. Costoro sono sicuramente salvati e si riconosce dal loro atteggiamento verso le cose di quaggiù, quelli che possiedono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo compresa la sventura, costoro sono tutti sicuramente salvati, anche se vivono e muoiono in apparenza atei.
 Coloro che posseggono perfettamente queste due virtù, anche se vivono e muoiono atei, sono santi. Quando si incontrano uomini siffatti, è inutile volerli convertire. Essi sono pienamente convertiti, sebbene non in modo visibile; sono stai generati di nuovo a partire dall’acqua e dallo spirito, anche se non sono mai stati battezzati, hanno mangiato il pane della vita, anche se non si sono mai comunicati. Un ateo e un infedele capaci di compassione pura, sono altrettanto vicini a Dio di un cristiano, e quindi lo conoscono altrettanto bene, sebbene la loro conoscenza si esprima con parole diverse, oppure resti muta.

È come se con il tempo si fosse finito per considerare non più Gesù, ma la Chiesa come Dio incarnato quaggiù. La metafora del Corpo mistico funge da ponte tra le due concezioni. Ma c'è una piccola differenza: ed è che Cristo era perfetto mentre la Chiesa è macchiata da numerosi crimini.
La metafora del "velo" o del "riflesso" applicata dai mistici alla fede permette loro di uscire da un tale soffocamento. Essi accettano l'insegnamento della Chiesa, non come se fosse la verità, ma come qualcosa dietro a cui si trova la verità.
Ciò è molto lontano dalla definizione di fede del catechismo del Concilio di Trento. E' come se sotto la medesima denominazione di cristianesimo e all'interno della stessa organizzazione sociale vi fossero due religioni distinte: quella dei mistici, e l'altra.
Io credo che la religione vera sia la prima, e che la confusione tra le due abbia prodotto allo stesso tempo grandi vantaggi e grandi inconvenienti.
Di fatto, i mistici di quasi tutte le tradizioni religiose convergono fin quasi all'identità.
Essi costituiscono la verità di ciascuna.
La contemplazione praticata in India, Grecia, Cina ecc.. è soprannaturale quanto quella dei mistici cristiani. C'è una grandissima affinità tra Platone e per esempio San Giovanni della Croce. Come anche tra la mistica cristiana e il taoismo ecc..
Non c'è alcuna ragione di supporre che dopo un crimine tanto atroce come l'assassinio di un essere perfetto l'umanità sarebbe dovuta diventare migliore e di fatto complessivamente non sembra essere diventata migliore. La Redenzione si trova su un altro piano, un piano eterno.
In generale non vi è alcuna ragione di stabilire un legame tra il grado di perfezione e la cronologia.
Il cristianesimo ha introdotto nel mondo questa nozione di progresso, prima sconosciuta; e tale nozione diventata il veleno del mondo moderno lo ha scristianizzato. Occorre abbandonarla.
Se si vuole trovare l'Eternità occorre disfarsi della superstizione della cronologia.
I misteri della fede non sono un oggetto per l’intelligenza in quanto facoltà che permette di affermare o di negare. Non appartengono all’ordine della verità, ma a un ordine superiore. L’unica parte dell’anima umana capace di un contatto reale con essi è una facoltà di amore soprannaturale. Soltanto questa è pertanto capace di un’adesione nei loro riguardi.
Il ruolo delle altre facoltà dell’anima, a cominciare dall’intelligenza, è soltanto quello di riconoscere che ciò con cui l’amore soprannaturale viene a contatto è reale; che tali realtà sono superiori agli oggetti di loro pertinenza; e di tacere non appena l’amore soprannaturale si desta in modo attuale nell’anima.
La virtù di carità è l’esercizio della facoltà di amore soprannaturale.
La virtù di fede è la subordinazione di tutte le facoltà dell’anima alla facoltà di amore soprannaturale.
La virtù di speranza è un orientamento dell’anima verso una trasformazione dopo la quale essa sarà interamente ed esclusivamente amore.
Per subordinarsi alla facoltà di amore, le altre facoltà devono trovarvi ciascuna il proprio bene; in particolare l’intelligenza, che è la più preziosa dopo l’amore. E le cose stanno effettivamente così.
Quando l’intelligenza torna a esercitarsi di nuovo, dopo aver fatto silenzio per consentire all’amore di invadere tutta l’anima, si trova a possedere più luce di prima, una maggiore attitudine a cogliere gli oggetti, le verità che sono di sua pertinenza.
Non solo: io credo che tali silenzi costituoscano per essa una educazione che non ha equivalenti e le permettano di cogliere verità che altrimenti le resterebbero celate per sempre.
Ci sono verità che sono alla sua portata, che essa può cogliere, ma solo dopo essere passata in silenzio attraverso l’inintelligibile.
Non è questi che Giovanni della Croce intende dire chiamando la fede una notte?
L’intelligenza può riconoscere i vantaggi di questa subordinazione all’amore soltanto per esperienza, a cose fatte. Prima, non ne ha alcun presentimento. Non ha inizialmente alcun motivo ragionevole di accettare questa subordinazione. Cosicchè questa subordinazione è opera soprannaturale che soltanto Dio opera.
L'intelligenza deve esercitarsi in totale libertà, oppure tacere. Nel suo ambito la Chiesa non deve avere nessun diritto di giurisdizione. Ovunque ci sia disagio dell'intelligenza c'è oppressione dell'individuo da parte del sociale, che tende a diventare totalitario. La Chiesa ha stabilito un totalitarismo, così essa oggi non è priva di responsabilità negli attuali avvenimenti.

Quando si fa perfetta attenzione a una musica perfettamente bella (e lo stesso vale per l'architettura, la pittura la scultura ecc..) l'intelligenza non ha al riguardo alcunchè da affermare o da negare. Ma tutte le facoltà dell'anima, compresa l'intelligenza, tacciono e sono sospese all'ascolto. L'ascolto è applicato ad un oggetto incomprensibile ma che racchiude della realtà e del bene. E l'intelligenza che non vi coglie alcuna verità vi trova nondimeno un nutrimento. Io credo che il mistero del bello nella natura e nelle arti (ma soltanto nell'arte di primissimo ordine, perfetta o quasi) sia un riflesso sensibile del mistero della fede.

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estratti sparsi a cura mia da 'Lettera a un religioso' di Simone Weil, del 1951
foto: particolari del cimitero Monumentale di Poggioreale, Napoli

A cercare fratelli

Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo….La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata: non dico i suoi valori — che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire — ma le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, ché tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo.
La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati);
i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. 
Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po’ rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? La loro attesa era lunga quanto l’adolescenza — malgrado qualche eccezione ch’era una meravigliosa colpa — ma essi sapevano aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie coi loro compagni.
La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza.
Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari. Erano come presi da una loro ispirazione a violare le leggi, e accettavano il loro destino di banditi, sapendo, con leggerezza o con antico sentimento di colpa, di essere in torto contro una società di cui essi conoscevano direttamente solo il bene, l’onestà dei padri e delle madri: il potere, col suo male, che li avrebbe giustificati, era così codificato e remoto che non aveva reale peso nella loro vita.
Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa — e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione — è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra.

p.p.p. 72'


martedì 19 marzo 2013


'A vita soja

Carmè, m'alluntano pe mo
m'alluntano pecchè faccio chello che vvuò
ma cchiù 'ttarde ce avimma verè
nu mumento ma t'aggia parlà
cu martiteto nun ce pensà
tutto manca, ragiona cu me






io vengo oggi e tu oggi m'e 'a di'
ca st'ammore mai fine avarrà
ca si' 'a mia pure a costo 'e murì
perchè sulo nun pozzo campà
io vengo oggi pe sentirte 'e di'
ca si' 'a mia pure a costo 'e murì

in una pagina a caso un mucchio di foto

1 Oh Signore, quanto sono amabili le tue dimore,
2 L'anima mia langue e vien meno,
sospirando i cortili del SIGNORE;
il mio cuore e la mia carne mandano grida di gioia al Dio vivente.
3 Anche il passero si trova una casa
e la rondine un nido dove posare i suoi piccini...
I tuoi altari, oh SIGNORE,
Dio mio!...
4 Beati quelli che abitano nella tua casa
e ti lodano sempre

martedì 12 marzo 2013

lunedì 11 marzo 2013

Videant

Chiunque tu sia, o viandante, cittadino, provinciale o straniero, entra e devotamente rendi omaggio alla prodigiosa antica opera: il tempio gentilizio consacrato da tempo alla Vergine e maestosamente amplificato dall’ardente principe di Sansevero don Raimondo di Sangro per la gloria degli avi e per conservare all’immortalità le sue ceneri e quelle dei suoi nell’anno 1767. Osserva con occhi attenti e con venerazione le urne degli eroi onuste di gloria e contempla con meraviglia il pregevole ossequio all’opera divina e i sepolcri dei defunti, e quando avrai reso gli onori dovuti profondamente rifletti e allontanati

Mystic Weil

Dio pena, attraverso lo spessore infinito del tempo e della specie, per raggiungere l'anima e sedurla. Se essa si lascia strappare, anche solo per un attimo, un consenso puro e intero, allora Dio la conquista. E quando sia divenuta cosa interamente sua, l'abbandona. La lascia totalmente sola. Ed essa a sua volta, ma a tentoni, deve attraversare lo spessore infinito del tempo e dello spazio alla ricerca di colui ch'essa ama. Così l'anima rifà in senso inverso il viaggio che Dio ha fatto verso di lei. E ciò è la croce

sabato 16 febbraio 2013

Eli, Eli, lama sabactàni


20 Entrò in una casa e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo. 21 Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: «È fuori di sé». 22 Ma gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni». 23 Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: «Come può satana scacciare satana? 24 Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; 25 se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi.26 Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire. 27 Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa. 28 In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno;29 ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna».30 Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito immondo».
'ngopp a chisti scogli
chesta rena nera l'aggio vista già
è stato quanno è stato 'o ffuoco
tant'anne fa
'o ttengo dint' 'e scarpe chiuse
volle coce è comm'a pece
abbrucia però male nun fa
rena nera
abbascio 'o ranatiello 'o mare stà
dint' all'acqua stong'asciutto
a lengua 'e fuoco nun m'acchiappa
rena nera
che ne sai..
luna chiena. pace e bene
tu le vist'comm'tremma 'a terra sotto 'e pier'
e se ne vene e se ne va
e 'o ffuoco fa ballà pure sti scogli
tu luna cu sta luce me cummuogli
luna chiara
me puorte fino addò fernesce 'a rena
me spuoglie fino a quanno vir'sul'ò bene
e ridi fino a quanno 'a luna nera more
oh luna astrignime e puortame cu te
rena nera

last word, end world [melancholia prophecy]


a Carmelo Imbriani, 37 anni, meridionale

















che corse appassionate che si faceva per tutto il campo ogni volta che segnava


venerdì 8 febbraio 2013

Contronemesi


lunedì 4 febbraio 2013

Our Fetid City


giovedì 31 gennaio 2013

Poste Equitalie

[inferno della burocrazia, della previdenza sociale, delle imposte, controllo para-militare del sistema di riscossione, incubo del sistema giudiziario]


i professionisti dell'antimafia [di leonardo sciascia]


dal Corriere della sera , 10 gennaio 1987

Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono «eroi della sesta»:

1) «Da questo stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l'angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti... Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta , Einaudi, Torino, 1961).

2) «Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo , Einaudi, Torino, 1966).

Il punto focale . Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell'antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s'intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane «ricercatore» dell'Università di Oxford e allievo dì Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione dell'autore è rivolta non tanto alla «mafia in sé» quanto a quel che «si pensava la mafia fosse e perché»: punto focale, ancora oggi, della questione: per chi - si capisce- sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco di un'isola pittoresca, al colore locale, alla particolarità folcloristica. Ed è curioso che nell'attuale consapevolezza (preferibile senz'altro - anche se alluvionata di retorica - all'effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l'impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga , Pirandello e Guttuso.

Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l'illusione che quei miei due libri, cui i passi che ho voluto ricordare, siano serviti - a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia poiché c'è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione un libro) - siano serviti ai tanti, tantissimi che l'hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo i più li abbiano letti, per così dire, «en touriste», allora; e non so come li leggano oggi. Tant'è che allora il «lieto fine» - e se non lieto edificante - era nell'aria, per trasmissione del potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In nome della legge, in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.

Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la «pièce» era stata dal, suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e, vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un «esempio» (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al, problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un'indagine e un'analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n'è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.

Nel primo fascismo. idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l'istanza rivoluzionaria degli ex combattenti dei giovani che dal Partito Nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell'invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello Stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell'ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi «risorgimentali» - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena, dopo lì delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l'arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).

Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange «rivoluzionarie» per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - garantire al fascismo almeno l'immagine di restauratore dell'ordine - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.

Le guardie del feudo. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto.

Mori, dice Duggan, «era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva «forte fede nello Stato», «rigoroso senso del dovere». Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse - quel periodo di ozio - a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.

Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole.

Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come «mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.

E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: «et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico.

Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel «notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il "superamento" da pane del più giovane aspirante".

Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come «la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel «superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria - è «magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire come «magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna «a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza «che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo «piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava.

I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?

morire la notte di San Lorenzo senza un perchè. [a G.&P.]


lunedì 28 gennaio 2013

«Se ve l'avessi mostrata, replicò Don Chisciotte, che fareste confessando una verità così nota ed evidente? L'importante è che senza vederla, voi lo dovete credere, confessare, affermare, giurare, e difendere, e nel caso in cui non lo facciate...vi aspetto qui a piè fermo, confidando nella ragione che ho dalla mia parte»

Cervantes, Don Chischiotte

Maramè!

"…Che ll'afferra
ca na guerra
ogne tanto s'ha dda fa'?
Forse pe' sfulla ?!
So' 'e putiente,
malamente,
ca cchiù 'a vorza hann'a 'ngrassa',
senz'ave' pietà!
'O prugresso?
More 'o fesso!
Jh che bella civiltà!
Che mudernità!
una è a guerra ca ce spetta
e purtroppo l’amma fa
chella là ca tutte e juorne
se cumbatte pe campà
Marame'! Siente, sie'!
Che battaglia, neh!"


sabato 26 gennaio 2013

Le guerre personali [Pianura, cinque anni dopo la rivolta]



Le guerre personali: Pianura, cinque anni dopo la rivolta
di Fabio Germoglio



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articoli saggi video correlati:
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- La città nel sacco: i dieci giorni di Pianura - di Marcello Anselmo e Luca Rossomando
http://napolimonitor.it/2009/04/02/537/la-citta-nel-sacco-i-dieci-giorni-di-pianura.html

- È stata morta una terra - di Davide Schiavon
http://napolimonitor.it/2013/01/08/19722/e-stata-morta-una-terra.html

- La catastrofe ambientale a Napoli e Caserta: come la peste

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- Biopolitica di un rifiuto, le rivolte antidiscarica a Napoli e in Campania - a cura di Antonello Petrillo
http://www.ombrecorte.it/more.asp?id=212&tipo=culture

- Pianura 2008, rifiuto del degrado, prospettive per il futuro - a cura dell’Associazione Lello Mele e del Comitato per la rinascita dei Pisani

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Tumori a Pianura
http://www.youtube.com/watch?v=B6EC9-D_qN8&feature=youtu.be

Nella terra di Gomorra
http://www.youtube.com/watch?v=w2CarU_LhB0

Corteo a Pianura
http://www.youtube.com/watch?v=WOtZHFCkres

Pianura come Chernobyl
http://www.youtube.com/watch?v=wgFEKghK8G0

Una montagna di balle
http://www.youtube.com/watch?v=c6hRWkU2An8

Biutiful cauntri
http://www.youtube.com/watch?v=M_2mmfF5t5c

Il ministro Balduzzi nella Terra dei fuochi con don Patriciello
http://www.youtube.com/watch?v=jhWaqH9NsgU