domenica 28 dicembre 2014

perception



Qui per capirsi dobbiamo parlare di come il dolore modifica l'immagine del tempo.
L'insorgere della sofferenza annulla il tempo lineare, lo spezza, ne fa vorticosi scarabocchi. La notte dei tempi si raccoglie ai bordi dell'aurora d'oggi e di domani.
Il dolore ci sprofonda tra le antenate unicellulari, tra i borbottii rissosi o terrorizzati dentro le caverne, tra le divinità femminili ricacciate nel buio della terra, pur tenendoci ancorate - mettiamo - al computer su cui stiamo scrivendo.
I sentimenti forti sono così, fanno saltare la cronologia.

Un'emozione è un salto mortale, una capriola, una piroetta vorticosa. Quando il dolore investe, il passato smette di essere passato e il futuro smette di essere futuro, cessa l'ordine del prima e del dopo.
Anche scriverne ha questo movimento della confusione.

Mia madre mi ha lasciato un vocabolo del suo dialetto che usava per dire come si sentiva quando era tirata di qua e di là da impressioni contraddittorie che la laceravano. Diceva che aveva dentro una frantumaglia. La frantumaglia (che lei pronunciava frantummaglia) la deprimeva. A volte le dava capogiri, le causava un sapora di ferro in bocca. Era la parola per un malessere non altrimenti definibile, rimandava a una folla di cose eterogenee nella testa, detriti su un'acqua limacciosa del cervello. La frantumaglia era misteriosa, causava atti misteriosi, era all'origine di tutte le sofferenze non riconducibili a una sola evidentissima ragione.
La frantumaglia, quando ormai non era più giovane, la svegliava in piena notte, la induceva a parlare da sola e poi a vergognarsene, le suggeriva qualche motivetto indecifrabile da cantare a mezza bocca che presto si estingueva in un sospiro, la sospingeva fuori casa all'improvviso abbandonando i fornelli accesi, il sugo a bruciare in pentola.
Spesso la faceva anche piangere e il vocabolo mi è rimasto in mente dall'infanzia per definire innanzitutto i pianti improvvisi e senza una ragione consapevole: lacrime di frantumaglia.
La frantumaglia è il deposito del tempo senza l'ordine di una storia, di un racconto. La frantumaglia è l'effetto del senso di perdita, quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo, un ancoraggio per la nostra vita, andrà a unirsi presto a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere.

sabato 27 dicembre 2014

Saba, venerdì sera

C’è un fanciullo che incontro nelle mie
passeggiate, un fanciullo un poco strano.
Ha qualcosa di me, di me lontano
nel tempo; un passo strascicato e molle
di bestia troppo in libertà lasciata;
la folla schiva entro le anguste vie,
ama le barche piene di cipolle
e di capucci; tutto esplora, il nuovo
porto, la diga: ed oggi lo ritrovo,
fermo, la bella testina abbassata,
lo sguardo immobilmente a terra chino.
«Che mai sarà, bambino?»
Perché mai cosí intento? E che può dire
solo a se stesso, un chiaro giorno, all’ombra
d’una vela, ove già la riva è sgombra,
questo indimenticabile monello?
che può fargli piú niente altro vedere
che il suo mondo, anche in vista impallidire
come un appassionato, dargli un bello
diverso che di giovane animale?
Io, se in lui mi ricordo, ben mi pare
che il suo cuore non debba ancor sapere
quella che in ogni nostra cura è ascosa,
malinconia amorosa.
Meglio in un lungo avventuroso sogno
il suo ben corrucciato occhio s’interna.
Anche gli è a noia la casa paterna,
un carcere la scuola; e forse è nulla
di tutto questo; è appena un’ombra vana
che insegue, un indistinto ancor bisogno
di esplorare più addentro che la brulla
collina, e il porto, e lunghe vie remote;
un bisogno onde presto si riscuote,
sospettoso mi guarda, e si allontana
con quel suo passo strascicato e molle
delle bestie satolle.

venerdì 26 dicembre 2014

bordello di mare con città

 
Avite mai visto ‘a luna,
na sera e‘ stagione,
squagliarsi sul pavimento
comm’a nu piezzo ‘e burro
ncopp’ ‘e maccarune?
[…]
Io sì,
io l’aggio vista!
Ed era una luna umana,
petulante, in confidenza
cu tutto chello ca se perde,
cu tutto chello
ca va sott’acito,
dint’all’anema de’ ccase.
[…]
Chiagneva e parlava,
chella luna

lunedì 1 dicembre 2014

venerdì 28 novembre 2014

frammenti


sabato 22 novembre 2014

Terremoto


ci sono giovani donne
che dopo aver fatto un figlio
hanno paura di essere madri
e vanno in casa della madre
dove diventano figlie
e il bambino
per la nonna è un figlio
per la madre una bambola
a meno che non abbiano una balia
o una vecchia cameriera di famiglia.
Se c'è il marito
non possono andare dalla madre
anche se lo vorrebbero tanto
e devono fingere
che il bambino è un bambino
che non è una bambola
Tua madre
allora è la madre di tuo figlio
e tu diventi madre
solo quanto ti accorgi
che fai patire a tuo figlio
quanto patisti da tua madre
Che lo ho avuto a fare
ti chiedi
se tutto si ripete eguale?
Così ti accorgi del corpo
quando ti fa male
Ma la ripetizione

è il peggior male

sabato 15 novembre 2014

mystery [hands]


third

Porta in una notte come questa, dispiacere,
recare a voi disturbo, in fondo all'occhio, al cuore,
sia che lo spettro che v'arriva è pura fiamma,
sia che provenga solo da una debole scintilla.
Una delle prime sorprese della vita, a ritornarci,
consiste nel sentirsi costretti a spiegazione, di continuo.

Eccoci qua, a 'nfettarce 'a stessa freva, sonnolenta, contenta
azzeccate sott' a pelle, quasi comm' 'e vene
capillari.

Io ve parlo, ve tocco, che bellizze, che sollievo!
O' tengo ancora astipato nu ricordo e stu sollievo
Ero n'acqua na vota, sapite? Che pigliava forme

O' vveco, pure vuie tenite l'uocchie chiuse
Comme a duie malate, ca s'alleccano a freva, stamme stis'
int' 'a lentezza
nell'arresto do Tiempo.

Porta in una notte come questa, dispiacere
insistere a restare in una forma
Ci sfiliamo, adesso, fianco a fianco
'e lato a vvuie
o preferiamo darci spalle ad angolo
o 'nzieme a nu lato solamente
caricatura oscena
di parziali e squilibrati desideri, imperfezioni.
Ci strusciamo cu 'e parole ca ce simme ditte
ca ce simme sciusciate
a risucchio, senza emettere rumore
muvenne 'a vocca, in pantomima
comme fanno 'e pisce.

mercoledì 12 novembre 2014



Potrebbe essere un fiume grandissimo
Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore
Una rabbia strappata uno stelo sbranato
Un urlo altissimo
Ma anche una minuscola erba per i ritorni
Il crollo d’una pigna bruciata nella fiamma
Una mano che sfiora al passaggio
O l’indecisione fissando senza vedere
Qualcosa comunque che non possiamo perdere
Anche se ogni altra cosa è perduta
E che perpetuamente celebreremo
Perché ogni cosa nasce da quella soltanto

Ma prima di giungervi
Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione
La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità.

giovedì 6 novembre 2014

Non sono i bambini che lei viene a salvare

Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo.

In quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la guerra d’Abissinia. Quando nostra sorella penultima si ammala. Mandammo per il medico di Niella e alla seconda visita disse che non ce ne capiva niente; chiamammo il medico di Murazzano ed anche lui non le conosceva il male; venne quello di Feisoglio e tutt’e tre dissero che la malattia era al di sopra della loro scienza.
Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il Signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo piú grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella.

Come se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio, dal quale non ricevevamo piú posta. Tutte le mattine correvo in canonica a farmi dire dal parroco cosa c’era sulla prima pagina del giornale, e tornavo a casa a raccontare che erano in corso coi mori le piú grandi battaglie. Cominciammo a recitare il rosario anche per lui, tutte le sere, con la testa tra le mani.

Uno di quei giorni, nostro padre si leva da tavola e dice con la sua voce ordinaria:
- Scendo fino al Belbo, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia. -
Non so come, ma io capii a volo che andava a finirsi nell’acqua, e mi atterrì, guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione: nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo come se fosse il pri¬mo dei suoi figli. Eppure non diedi l’allarme, come se sapessi che lo avrei salvato solo se facessi tutto da me.

Gli uscii dietro che lui, pigliato il forcone, cominciava a scender dall’aia. Mi misi per il suo sentiero, ma mi staccava a solo camminare, e così dovetti buttarmi a una mezza corsa. Mi sentí, mi riconobbe dal peso del passo, ma non si voltò e mi disse di tornarmene a casa, con una voce rauca ma di scarso comando. Non gli ubbidii. Allora, venti passi piú sotto, mi ripeté di tornarmene su ma stavolta con la voce che metteva coi miei fratelli piú grandi, quando si azzardavano a contraddirlo in qualcosa .
Mi spaventò, ma non mi fermai. Lui si lasciò raggiungere e quando mi sentí al suo fianco con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio dietro che mi sbatté tre passi su.
Mi rialzai e di nuovo dietro. Ma adesso ero piú sicuro che ce l’avrei fatta ad impedirglielo, e mi venne da urlare verso casa, ma ne eravamo già troppo lontani. Avessi visto un uomo lí intorno, mi sarei lasciato andare a pregarlo: “Voi, per carità, parlate a mio padre. Ditegli qualcosa”, ma non vedevo una testa d’uomo, in tutta la conca.

Eravamo quasi in piano, dove si sentiva già chiara l’acqua di Belbo correre tra le canne. A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò a mostrarmelo come si fa con le bestie feroci. Non posso dire che faccia avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto, e sopratutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia, per la vergogna di vederlo come nudo.

Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lí, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle d’un serpente. Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il petto per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe voltate tutte tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da una festa con una sbronza fina.
Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio, per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo.

giovedì 23 ottobre 2014

fraterno, paterno


fiele dei miei occhi e dei miei nervi

e questa esclamazione di sfottente, indecente amore,
“S’agapò”,
questa pernacchia alla mia gobba,
questo epitaffio pagato in anticipo ai miei restanti giorni,
si sparse ben presto per i vicoli, come un’eco
pulcinellesca.
Per la salita di Spezzano, per l’ansa di Pontecorvo,
per lo spiazzo della Cesàrea,
su, su, fino a vicolo del Pero, dovunque,
lo sberleffo del mio turpe persecutore/persecutrice,
fece adepti, ciurmaglia canora:
“S’agapò. s’agapò, s’agapò.. S’agapò. s’agapò, s’agapò..”
e neppure sapevano che volesse dire ti amo
o che nella più viva delle carni
iniettassero quel grido
come il più indelebile veleno



handout


mani di alabastro

Pe' dint' 'e viche addo' nun trase 'o mare,
pe' dint' 'e viche addo' nun trase 'o mare...

tutto nzieme 'o cielo se fa niro,
traseno a uno a uno 'e panne spase
e chiove, chiove ca dio s'è scurdato.
me pare nu diluvio universale
che lava 'e pprete e che cancella 'o mmale
pe' dint' 'e viche addò nun trase 'o mare..
pe' dint' 'e viche addò nun trase 'o mare..

po' schiara juorno cu n'alba rosa
e 'o munno pare ca è n'ata cosa.
e n'ata vota, c'avimm' 'a fa'?
cantammo pe' ce sunna' 'e campa'.
si 'a vita è suonno, c'avimm 'a fa'?
cantammo pe' ce sunnà 'e campa'.

pe' dint' 'e viche addò nun trase 'o mare...
pe' dint' 'e viche addò nun trase 'o mare..

divina è l'illusione

La beata Ludovica Albertoni, in San Francesco a Ripa. la più grande meraviglia, ecco! qualcosa che eccede il capolavoro, che fa del Bernini un capolavoro. e non è più un capolavoro del Bernini... Non so se rendo la non idea. Andate a vederla, guardatela in questo orgasmo, in questo suo venir meno, da monaca... Tra i merletti marmorei, tra queste mani che non tornano anatomicamente. E vedrete davvero cos'è una cosa mancata, non è una mancanza, è mancata da per sempre... è prima delle parole ed è dopo delle parole, non appartiene più al discorso.


Stefano

«Questa chiesa non interessa a nessuno, e questo perché le persone non sono in relazione tra loro. Non siamo in contatto, di nessun tipo. Ci passiamo accanto senza toccarci, senza nemmeno vederci. Se butto una carta a terra, tu non mi dici niente perché io e te nun ce sapimm’. Camminiamo su strade diverse, e questo permette la deriva delle cose, oltre che delle persone. I ragazzi qui non entrano mai. Stanno seduti fuori la chiesa, vicino la fontana, preferibilmente dove vi è maggior puzza di pipì. Non entrano perché non sanno cosa farci, non c’è chi riesce a smuoverli. Finiscono per guardarsi e non per guardare. Lo specchio di Narciso esiste, si chiama smartphone: faccio la foto a me, come se non mi conoscessi, e non a quello che vedono i miei occhi: io divento il filtro di tutte le cose, che diventano una sfondo, come questa chiesa in questa piazza»

lunedì 20 ottobre 2014

martedì 16 settembre 2014

Le vent se lève


 il faut tenter de vivre

domenica 14 settembre 2014

Marco

"..Per sopportare una caduta bisogna conservare una struttura, bisogna cioè proporre il corpo in una serie di posture e di geometrie in grado di assorbire gli urti e riproporre l'energia per il movimento, bisogna grosso modo essere come una palla da biliardo.
Questo sarà il cinema e la vita di Buster Keaton: essere lanciati, come una palla su un tavolo da biliardo, come un bambino su una rampa di scale, costretti a straordinarie geometrie per non rimanere stecchiti e sottoposti a un sistema di attrazione e forze repulsive fondato su desideri, relazioni di potere, addensamenti e sottrazione di corpi, il tutto ritmato dalle macchine.
Quello che però Keaton scopre nelle sue cadute è che l'abilità non basta: mentre ruzzoli via la scala si smonta, ti viene dietro. Il sistema non regge! Le macchine perdono i bulloni, le case crollano sotto il vento, le sposine fuggono e ritornano, e tutta la devastante stupidità dello stile di vita americano emerge come un incubo tragicomico dal quale non ci si può tirare fuori.
Il personaggio di Keaton è come un punto minuscolo inglobato in un ambiente immenso catastrofico e trasformabile: vasti paesaggi che cambiano e strutture geometriche deformabili, rapide e cascate, grandi navi alla deriva del mare, città spazzata via dal ciclone, treni su ponti che crollano.
E in tutto questo c'è il cinema che cerca di proporre un'immagine meno traballante della realtà, un'immagine invitante che lo spettatore cerca di tirare fuori, ma la rottura degli argini dello schermo porterà ad un esondazione capace solo di rendere il tutto più scivoloso."

mercoledì 10 settembre 2014

forty minutes

domenica 7 settembre 2014

broken mirror

mercoledì 3 settembre 2014

unmarried















Maria! Maria! Maria!

Lasciami entrare Maria!
Non posso restare in istrada!
Non Vuoi?
Tu aspetti
che con le guance infossate,
assaggiato da tutti,
insipido
io venga
a biascicar senza denti:
«sono oggi
mirabilmente onesto».
Maria,
vedi:
ho già cominciato ad incurvarmi.
Nelle vie
gli uomini bucheranno il grasso nei loro gozzi a quattro piani,
sporgeranno gli occhietti
lisi da quarant'anni di logorio,
per ammiccare l'un l'altro ghignando
che fra i miei denti
- di nuovo! -
è il panino raffermo della carezza di ieri.
Zuppo ladruncolo stretto dalle pozzanghere,
la pioggia, spruzzando singhiozzi sui marciapiedi,
lecca il cadavere delle vie tartassate dai ciottoli,
e sulle ciglia canute
- si! -
sulle ciglia dei ghiaccioli
gocciolano lacrime dagli occhi
- si! -
dagli occhi abbassati delle grondaie
Succhiò tutti i pedoni il muso della pioggia,
mentre nelle vetture luccicava una fila di pingui atleti:
scoppiavano certuni,
rimpinzati a crepapelle,
e attraverso gli spacchi stillava la sugna,
come un torbido fiume dalle vetture scolava,
insieme con un pane maciullato
la masticatura di vecchie cotolette.
Maria!
Come ficcare una dolce parola nel loro orecchio coperto di grasso?
L'uccello
va mendicando con una canzone,
canta,
affamato e squillante,
ma io sono un uomo, Maria,
semplice,
scatarrato dalla notte tisica nella sudicia mano della Presnja.
Maria vuoi un uomo simile?
Lasciami entrare Maria!
Con lo spasmo delle dita stringerò la gola metallica del campanello!
Maria!
Diventano feroci i pascoli delle strade.
Sul collo come una scalfittura le dita della calca.
Apri!
Fanno male!
Vedi? Sono confitti nei miei occhi
gli spilli di cappelli femminili!
Mi ha lasciato entrare.
Bambina!
Non ti spaurire
se sul mio collo taurino
seggono come un'umida montagna donne dal ventre sudato:
gli è che attraverso la vita io trascino
milioni di enormi casti amori
e milioni di milioni di sudici amorucci.
Non ti spaurire
se ancora una volta
nell'intemperie del tradimento
mi stringerò a migliaia di vezzose faccine.
"Adoratrici di Majakovskij!":
ma questa è davvero una dinastia
di regine salite al cuore d'un pazzo.
Maria più vicino!
Con denudata impudenza
oppure con un pavido tremore
concedimi la florida vaghezza delle tue labbra:
io e il mio cuore non siamo mai vissuti fino a maggio,
e nella mia vita passata
c'è solo il centesimo aprile.
Maria!
Il poeta canta sonetti a Tiana,
mentre io,
tutto di carne,
uomo tutto,
chiedo semplicemente il tuo corpo,
come i cristiani chiedono:
"Dacci oggi
il nostro pane quotidiano".
Maria, concediti!
Maria!
Io temo di scordare il nome tuo
come un poeta teme di scordare
qualche
parola nata fra i tormenti delle notti,
uguale per grandezza a Dio.
Il tuo corpo
io saprò custodire ed amare
come un soldato,
stroncato dalla guerra,
inutile,
ormai di nessuno,
custodisce la sua unica gamba.
Maria,
Non vuoi?
Non Vuoi?
Ah!
Ed allora di nuovo,
afflitto e cupo,
io prenderò il mio cuore
e, irrorandolo di lacrime,
lo porterò
come un cane
porta
nella sua cuccia
la zampa stritolata dal treno.
Con il sangue del cuore allieterò la strada,
fiori di sangue si incolleranno alla polvere della mia giubba.
Mille volte danzerà come Erodiade
il sole attorno alla terra
cranio del Battista.
E quando avrà finito di danzare
il mio numero di anni,
d'un milione di gocce di sangue si coprirà la traccia
che mena alla casa di mio padre.
Uscirò fuori,
sudicio (per le notti trascorse nei fossati), mi metterò al suo fianco,
mi chinerò
per dirgli in un orecchio:
Ascoltate, signor Dio!
Non vi dà noia
inzuppare ogni giorno
nella composta di nuvole gli occhi ingrassati?
Su via, vediamo insieme
di fare un carosello
sull'albero della conoscenza del Bene e del Male!
Onnipresente, tu sarai in ogni armadio,
e a tavola porremo vini tali
che anche all'accigliato Pietro Apostolo
verrà voglia di ballare un ki-ka-pù.
E in paradiso di nuovo ospiteremo le Evucce:
basta che tu dia un ordine
e questa notte stessa
ti porterò in gran frotta
da tutti i viali le ragazze più belle.
Vuoi?
Non vuoi?
Scrolli la testa capelluta?
Aggrondi le ciglia canute?
Tu pensi
che quello con le ali
che ti sta dietro
sappia cosa sia l'amore?
Anch'io sono un angelo; io lo ero,
guardavo negli occhi come un'agnello di zucchero,
mo non voglio più offrire alle giumente
vasi plasmati nella farina di Sèvres.
Onnipresente che hai inventato un paio di braccia
E hai fatto sì che ciascuno
Avesse una sua testa,
perché non hai inventato una maniera
di baciare, baciare e ribaciare
senza tormenti?!
Pensavo che tu fossi un gran Dio onnipotente,
e invece sei un insipiente, un minuscolo deuccio.
Vedi, io mi curvo,
di dietro il gambale
traggo il trincetto.
Alati furfanti!
Rannicchiatevi in paradiso!
Rabbuffate le vostre piumette in uno sbigottito brivido!
Te, impregnato d'incenso, io squarcerò
di qui sino all'Alaska!
Non mi fermerete.
Sia che mentisca
o mi trovi nel giusto,
non potrei essere più calmo.
Guardate:
hanno di nuovo decapitato le stelle,
insanguinando il cielo come un mattatoio!
Ehi, voi!
Cielo!
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!


martedì 19 agosto 2014


Transmission

Il mistero della vita dei padri è nella loro esistenza. Ci sono delle cose - anche le più astratte e spirituali - che si vivono solo attraverso il corpo. Vissute attraverso un altro corpo non sono più le stesse.
Ciò che è stato vissuto dal corpo dei padri, non può più essere vissuto dal nostro. Noi cerchiamo di ricostruirlo, di immaginarlo e di interpretarlo: cioè ne scriviamo la storia. Ma ciò che c'è di più importante in essa ci sfugge irreparabilmente.
Così, per le stesse ragioni, non possiamo vivere corporalmente i problemi dei ragazzi; il nostro corpo è diverso dal loro, e la realtà vissuta dai loro corpi ci è negata. La ricostruiamo, la immaginiamo, la interpretiamo, ma non la viviamo.
C'è quindi un mistero anche nella vita dei figli: e c'è di conseguenza una continuità nel mistero (un corpo che vive la realtà): continuità che si interrompe con noi.

Catello


War

«What life has taught me
I would like to share
With those who want to learn…»
Until the philosophy which holds one race superior
And another inferior, is finally and permanently
Discredited and abandoned…
That until there are no longer first class and second
Class citizens of any nation.
Until the co lour of a man skin is of no more
Significance than the colour of his eyes…
That until there basic human rights are equally
Guaranteed to all, without regard to race…
That until that day, the dream of lasting peace,
World citizenship and the rule of international
Morality will remain in buy a fleeting
Illusion to be persued, but never attained...
And until the ignoble and unhappy regime that now
Hold our brothers in Angola, in Mozambique, in
South Africa, in subhuman bondage, have been
Toppled utterly destroyed...
Until that day the African continent will now know
Peace. We Africans will fight, if necessary,
And we know we shall win,
As we are confident in the victory
Of good over evil,
Of good over evil...

Susa


mercoledì 23 luglio 2014

lunedì 14 luglio 2014

ex aequo


paralysis

Due cose possono danneggiare qualsiasi lavoro, e in modo particolare un lavoro creativo: la prima è accontentarsi subito di un risultato mediocre, rinunciando a migliorarlo. La seconda è non accontentarsi mai ed è, paradossalmente, più grave: significa, alla fin fine, rinunciare del tutto a produrre, perché niente sembrerà mai buono abbastanza. È il perfezionismo che la psicologia definisce maladaptive (disadattativo).
Chiarisco: l’insoddisfazione è una potente leva per la creatività e in generale per agire. Ci porta a farci domande. A svolgere un compito con dedizione e in modo meticoloso. Ad andare oltre. A essere tenaci e a porre riparo agli (inevitabili) errori che, fra l’altro, fanno parte di qualsiasi processo di invenzione o di scoperta.
La tensione a fare del proprio meglio e a dare il massimo (quella che, ahimè, la scuola non sempre riesce a trasmettere agli studenti) è sana e positiva: suvvia, non siamo dei mollaccioni e il cimento ci appassiona, no? Inoltre, in un paese a cui spesso tocca fare i conti con le proprie tendenze furbette, pressapochiste e autoindulgenti, una sana vocazione al perfezionismo andrebbe a maggior ragione considerata massimamente preziosa.
Ho scritto “sana vocazione”, però. Qualcosa di diverso da “tensione irrealistica e ansiogena”. La differenza, sottile ma cruciale, è analoga a quella che passa tra essere rigorosi oppure rigidi, e da una parte riguarda gli obiettivi che ci poniamo (“dare il meglio di noi” verso “realizzare il massimo di tutto, di tutti, di sempre”), dall’altra illumina il rapporto che abbiamo con noi stessi e con il nostro lavoro.
Il desiderio di dare il meglio possibile, mettendoci per certi versi “al servizio” del nostro compito, ci aiuta a focalizzarci su quanto stiamo facendo fino a dimenticarci di noi stessi e a entrare nellostato di flow, il flusso creativo e produttivo di cui parla Mihály Csíkszentmihály.
La tensione irrealistica verso una perfezione assoluta, invece, ci riempie di ansia e senso di inadeguatezza, ci fa temere gli errori fino a paralizzarci, mina l’autostima e ci lascia sfiniti, insoddisfatti, piagnucolosi e depressi. Di fatto, siamo talmente preoccupati di noi, e di quanto siamo o non siamo all’altezza delle nostre stesse gigantesche aspettative, da finire per trascurare le logiche, lo scopo, la materia stessa del compito che dovremmo svolgere.
Mind Tools segnala che, tra le altre cose, il perfezionismo disadattativo toglie alla creatività la sua componente più incantevole, quella giocosa, e il desiderio di sognare. Dà alcune dritte per riconoscere quel tipo lì di perfezionismo e alcuni consigli di buonsenso per venirne a capo: i due più rilevanti, mi sembra, sono “datti mete realistiche” e “stai attento alle tue emozioni”, mentre l’ultimo, “sii spontaneo” è una bellaingiunzione paradossale e, secondo me, non aiuta.
Psychology Today esordisce con la clamorosa affermazione che “il perfezionismo è un crimine contro l’umanità”. Subito dopo, per fortuna, articola un ragionamento piuttosto convincente: il perfezionismo irrigidisce i comportamenti, e in quanto tale contrasta la capacità di adattarsi, fondamentale per la sopravvivenza.
E poi: impedisce di affrontare nuove sfide e di assimilare nuova conoscenza, non è connesso tanto con l’avere alti criteri di qualità quanto con la paura di sbagliare e con uno stile educativo familiare intrusivo, ipercritico e intollerante verso gli errori. Al termine dell’articolo alcune buone dritte per i genitori su come fare critiche costruttive e apprezzamenti non costrittivi.
Se volete capire quanto e come siete perfezionisti, potete fare il test proposto da Psychology Today (sono quarantasei domande, per venti minuti). Non è male.
Invece L’Huffington Post vi propone una lista intitolata 14 segni che il vostro perfezionismo è andato fuori controllo. Uno dei più rivelatori è la tendenza a procrastinare a ogni costo: di nuovo, ecco la paura di sbagliare, di essere malgiudicati e di incorrere nella disapprovazione sociale.
David Foster Wallace, che lo conosceva bene, racconta il “blocco da perfezionismo” in un’intervista del 1996 trasformata in una graziosa animazione: “Se la tua fedeltà al perfezionismo è troppo alta, non farai mai nulla”, dato che “fare qualcosa è intrinsecamente tragico, perché significa sacrificare ciò che è meraviglioso e perfetto nella nostra testa per quello che è davvero”.
È la psicologa Tamar Chansky a proporre un’ulteriore, interessante strategia per contrastare il perfezionismo deteriore: pensare che l’opposto del perfezionismo non è la mediocrità, ma la realtà (incognite, ambiguità ed errori compresi) e, soprattutto, la possibilità. Quella che ci fa, a volte, incappare in un errore fertile e fortunato. E che, in tutti gli altri casi e da tutti gli altri errori, ci fa imparare qualcosa.

giovedì 10 luglio 2014

Salvatore


domenica 6 luglio 2014

Inside


crown of thorns

Io so questo che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg e i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. È un rifiuto sorto dal cuore della collettività contro cui non c'è niente da fare. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno, quando non ci saranno più, saranno altri. I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all'ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili ed incorruttibili.

giovedì 3 luglio 2014

Morte di Adamo

due giovani
si interrogano
smarriti
su quella prima morte della storia umana
 

martedì 1 luglio 2014

Like a selfie made

"ciò che la collettività si attende dall'individuo e presuppone in lui è sempre diverso da quello che egli scopre in se stesso come autentico"

domenica 29 giugno 2014

Care No Cure

martedì 24 giugno 2014

SCN



Ai Cappellani Militari Toscani che hanno sottoscritto
il comunicato dell'11 febbraio 1965

Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo.
Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola.
Io l'avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.

PRIMO perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch'io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.

SECONDO perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi.
Nel rispondermi badate che l'opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si contenterà né d'un vostro silenzio, né d'una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.
Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni.
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.

Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. E troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.
Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Articolo 11 "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...".
Articolo 52 "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino".
Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l'onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?
Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico.
Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L'obbedienza a ogni costo? E se l'ordine era il bombardamento dei civili, un'azione di rappresaglia su un villaggio inerme, I'esecuzione sommaria dei partigiani, I'uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, I'esecuzione d'ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, I'ordine d'un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri "superiori" sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando

mercoledì 18 giugno 2014

Syn

"..Adaptation (Il ladro di orchidee) o Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello) avevano, alla fine, una valvola di salvataggio, un concetto intelligente che la gente capiva. Non c’è nulla del genere in questo film, cosa che è più simile alla vita. Le cose volano via e vanno fuori di testa e l’essere incomprensibile sembra il processo dell’esistenza. Questo è quello che mi sono proposto di esplorare. Non so. Forse non è una buona idea per un film."
Charlie Kaufman

giovedì 12 giugno 2014

venerdì 6 giugno 2014

the world from the corner

L'asse d'ogni curva, qui, è decapitante,
perciò non camminiamo.
La geometria, da noi, è una tagliola,
'nu temperino subdolo, capzioso.
Spira aria 'e ghigliottina, qui da noi,
p'ogni vicolo e pontone.
Un terrore diffuso che blocca o irrigidisce,
insieme ai passi, qualsiasi pensiero.

Da voi invece tutto sembra piano,
liscio, euclidéo.
Tutto è senza rischio. O almeno così appare.
Tutto è senza orrore curve inibizioni.
'Nu muro eterno a voi vi libera dai raggi
li rimanda li riflette. Scherma.
La luce non vi acceca, no
non è per voi tortura, una fissa ed atroce compagnia.
Piuttosto vi accarezza, vi lusinga
Talvolta vi cola dalle ciglia come pianto
o 'a scazzimma rugiadosa de' ccriature,
'a matìna appena svegli, dall’angolo d' 'a cornea.

A nuie ce sfregia 'a luce, invece
ci tagliuzza, ci sminuzza, squarta
nun appena 'a jamm'incontro
La dobbiamo attraversare come a lutto
ciechi, incappucciati a boia
fotoresistenti quasi, sagome d’amianto.
E quando, po', ca passa parte a parte,
dal diaframma, penetrando, o in punto-cuore,
niente la respinge o la devìa, distorce,
anzi, l'anima s''a tene, s''a trattene,
e si carica, s'incendia, del suo fuoco,
che è ssulo 'nu castigo,
e però come fosse indifferente, opaca
orba di volontà e passione.
La passione più diffusa, qui da noi,
non è lo sdegno o l'orologio o il possesso
geloso delle cose, no.

Piuttosto è la distanza.
Sopportare il fastidio d''a luce, d' 'o ffuoco,
come fosse 'nu martirio, ma sdoppiato, obliquo,
non riguardante affatto alcun di noi.

martedì 3 giugno 2014


domenica 1 giugno 2014

è stata tua la colpa

e allora
adesso che vuoi
volevi diventare
come uno di noi
e come rimpiangi
quei giorni che
eri un burattino
ma senza fili
e invece adesso i
fili ce l'hai
e adesso non
fai un passo
se dall'alto non c'e'
qualcuno che comanda e
muove i fili per te
adesso la gente
di te piu' non ridera'
non sei piu' un
saltimbanco
ma vedi quanti
fili che hai
e' stata tua la scelta e
allora adesso
che vuoi
sei diventato
proprio come
uno di noi
a tutti gli agguati
del gatto e la
volpe tu
l'avevi scampata
sempre pero'
adesso rischi
di piu'
e adesso non
fai un passo
se dall'alto non c'e'
qualcuno che comanda e
muove i fili per te
e adesso che ragioni
come uno di noi
i libri della scuola
non te li venderai
come facesti
quel giorno
per comprare il
biglietto e entrare
nel teatro di
mangiafuoco
quei libri adesso
li leggerai
vai vai e
leggili tutti
e impara quei
libri a memoria
c'e' scritto che i
saggi e gli onesti
son quelli che fanno
la storia
fanno la guerra
la guerra e' una
cosa seria
buffoni e burattini
no non la faranno mai
e' stata tua la scelta e
allora adesso
che vuoi
sei diventato
proprio come
uno di noi
prima eri un buffone
un burattino
di legno ma
adesso che sei normale
quanto e' assurdo il
gioco che fai

Napoli, colto da infarto, muore in metropolitana

ENTRE LA LUZ Y LA SOMBRA (comunicato di fine esistenza)


La Realidad, Pianeta Terra.
Maggio 2014.

Compagna, compagno
Buona notte, sera, giorno in qualsiasi sia la vostra geografia, il vostro tempo e il vostro modo.
Buona alba.
Vorrei chiedere alle compagne, compagni e compagnei della Sexta che vengono da fuori, in particolare ai mezzi di informazione indipendenti compagni, la vostra pazienza, tolleranza e comprensione per ciò che dirò, perché queste saranno le mie ultime parole in pubblico prima di cessare di esistere.
Mi dirigo a voi e a color che attraverso di voi ci ascoltano e ci guardano.
Forse all'inizio, o nel trascorso di queste parole crescerà nel vostro cuore la sensazione che qualcosa è fuori luogo, che qualcosa non quadra, come se stessero mancando uno o vari pezzi per dare senso all'enigma che vi si mostrerà. Come che di per sé manca quello che manca.
Forse poi, giorni, settimane, mesi, anni, decadi dopo si capirà quello che adesso diciamo.
Le mie compagne e compagni dell'EZLN in tutti i livelli dell'organizzazione non mi preoccupano, perché è questo il nostro modo di qua: camminare, lottare, sapendo sempre che manca quello che manca.
Inoltre, che non si offenda nessuno, l'intelligenza dei compagni e compagne zapatisti è molto più in alto della media.
Per il resto, ci soddisfa e rende orgogliosi che sia di fronte

martedì 20 maggio 2014

Europe

Il manifesto di Ventotene (1944)


PER UN’EUROPA LIBERA E UNITA

Progetto d’un manifesto

I. — LA CRISI DELLA CIVILTÀ MODERNA.

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero.
1°) Si è affermato l'eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato dalle sue caratteristiche etniche, geografiche, linguistiche e storiche, doveva trovare nell'organismo statale creato per proprio conto, secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore i suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo. L'ideologia dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l'oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere entro il territorio di ciascun nuovo stato alle popolazioni più arretrate le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi dell'imperialismo capitalista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, sino alla formazione degli stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.
La nazione non è ora più considerata come lo storico prodotto della convivenza di uomini che, pervenuti grazie ad un lungo processo ad una maggiore unità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana; è invece divenuta un'entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possano risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo «spazio vitale» territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non                                            

martedì 13 maggio 2014

lunedì 12 maggio 2014

columns

'A Mamma è n'ata cosa: 'o cerviello,
ll'asse d'a casa, 'o sciato, ll'armunia;
è chella ca cumanna 'a cumpagnia:
sta 'ncapa 'o capo 'e casa, è nu cappiello.

Attuorno tene sempe nu ruciello,
abbada a mille cose, fa 'a Maria;
e si nun sbatte pè na malatia,
va ascianno sempe ll'ago cu 'o rucchiello.

A chi nu punto, a chi na cera storta,
a chi nu vaso, a chi n'avvertimento.
e se capisce 'a mamma quanno è morta,

quanno nun ce sta cchiù sta scucciantona:
ca pare ca t'accide ogne mumento
e, doppo nu minuto, te perdona.

martedì 6 maggio 2014

devotion


“È come se ci fossero due operazioni opposte. Da un lato si eleva a ‘maggiore’: di un pensiero si fa una dottrina, di un modo di vivere si fa una cultura, di un avvenimento si fa Storia. Si pretende così riconoscere e ammirare, ma, in effetti, si normalizza. Succede lo stesso per i contadini delle Puglie, secondo Carmelo Bene: si può dar loro teatro, cinema e persino televisione. Non si tratta di rimpiangere il vecchio buon tempo, ma d’essere sgomenti di fronte all’operazione che subiscono, l’innesto, il trapianto fatto alle loro spalle per normalizzarli. Sono divenuti maggiori. Allora, operazione per operazione, chirurgia contro chirurgia, si può concepire l’inverso: in che modo ‘minorare’ (termine usato dai matematici), in che modo imporre un trattamento minore o di minorazione, per sprigionare dei divenire contro la Storia, delle vite contro la cultura, dei pensieri contro la dottrina, delle grazie o delle disgrazie contro il dogma?”

martedì 22 aprile 2014

25


führe mich

martedì 1 aprile 2014

I misteri della fede non sono un oggetto per l’intelligenza in quanto facoltà che permette di affermare o di negare. Non appartengono all’ordine della verità, ma a un ordine superiore. L’unica parte dell’anima umana capace di un contatto reale con essi è una facoltà di amore soprannaturale. Soltanto questa è pertanto capace di un’adesione nei loro riguardi.
Il ruolo delle altre facoltà dell’anima, a cominciare dall’intelligenza, è soltanto quello di riconoscere che ciò con cui l’amore soprannaturale viene a contatto è reale; che tali realtà sono superiori agli oggetti di loro pertinenza; e di tacere non appena l’amore soprannaturale si desta in modo attuale nell’anima.
La virtù di carità è l’esercizio della facoltà di amore soprannaturale.
La virtù di fede è la subordinazione di tutte le facoltà dell’anima alla facoltà di amore soprannaturale.
La virtù di speranza è un orientamento dell’anima verso una trasformazione dopo la quale essa sarà interamente ed esclusivamente amore.
Per subordinarsi alla facoltà di amore, le altre facoltà devono trovarvi ciascuna il proprio bene; in particolare l’intelligenza, che è la più preziosa dopo l’amore. E le cose stanno effettivamente così.
Quando l’intelligenza torna a esercitarsi di nuovo, dopo aver fatto silenzio per consentire all’amore di invadere tutta l’anima, si trova a possedere più luce di prima, una maggiore attitudine a cogliere gli oggetti, le verità che sono di sua pertinenza.
Non solo: io credo che tali silenzi costituiscano per essa una educazione che non ha equivalenti e le permettano di cogliere verità che altrimenti le resterebbero celate per sempre.
Ci sono verità che sono alla sua portata, che essa può cogliere, ma solo dopo essere passata in silenzio attraverso l’inintelligibile.
Non è questi che Giovanni della Croce intende dire chiamando la fede una notte?
L’intelligenza può riconoscere i vantaggi di questa subordinazione all’amore soltanto per esperienza, a cose fatte. Prima, non ne ha alcun presentimento. Non ha inizialmente alcun motivo ragionevole di accettare questa subordinazione. Cosicchè questa subordinazione è opera soprannaturale che soltanto Dio opera.
L'intelligenza deve esercitarsi in totale libertà, oppure tacere. Nel suo ambito la Chiesa non deve avere nessun diritto di giurisdizione. Ovunque ci sia disagio dell'intelligenza c'è oppressione dell'individuo da parte del sociale, che tende a diventare totalitario. La Chiesa ha stabilito un totalitarismo, così essa oggi non è priva di responsabilità negli attuali avvenimenti.

Quando si fa perfetta attenzione a una musica perfettamente bella (e lo stesso vale per l'architettura, la pittura la scultura ecc..) l'intelligenza non ha al riguardo alcunchè da affermare o da negare. Ma tutte le facoltà dell'anima, compresa l'intelligenza, tacciono e sono sospese all'ascolto. L'ascolto è applicato ad un oggetto incomprensibile ma che racchiude della realtà e del bene. E l'intelligenza che non vi coglie alcuna verità vi trova nondimeno un nutrimento. Il mistero del bello nella natura e nelle arti (ma soltanto nell'arte di primissimo ordine, perfetta o quasi) è un riflesso sensibile del mistero della fede.

mercoledì 12 marzo 2014

Marzo

Marzo: nu poco chiove
e n'atu ppoco stracqua,
torna a chiovere e schiove,
ride 'o sole cu ll'acqua.
Mò nu cielo celeste,
mò n'aria cupa e nera:
mò d' o vierno 'e tempesta,
mò n'aria 'e primmavera.
Marzo: nu poco chiove
e n'atu ppoco stracqua.
N' auciello freddigliuso
aspetta ch'esce 'o sole:
ncopp'o tturreno nfuso
suspireno 'e vviole.
Catarì! Che vuò cchiù?
Tiéneme, core mio!
Marzo, tu 'o ssaie, sì tu,
e st'auciello song'io...
marzo: nu poco chiove
e n'atu ppoco stracqua

sabato 8 marzo 2014