sabato 11 marzo 2017

avevo la ferma convinzione che la vita, quella vera, 
esistesse in qualche posto lontano, laggiù oltre i tetti. 
Da allora continuo ad inseguirla. Ma essa si nasconde 
ancora da capo dietro altri tetti. 
Alla fine è stato tutto un gioco crudele con me, 
e la vita reale è rimasta lì

Tutto questo, tutto questo ha a che fare
con ciò di cui si dice siamo stati appena vittime:
“l'andarsene”, “il passaggio”.
Ma tutto è succieso accussì ambressa,
accussì ambressa.
Improvviso è l'abbraccio del veloce,
repentino, l'invisibile -
'a poesia -
così strozzante e dolce è il mutamento,
che lo si sente dopo, solo dopo,
“in medias res”, così si dice, come il
sogno che è avvenuto,
si ricorda solo all'alba,
nell'amaro reale del mattino,
quando, svegli e ad occhi chiusi,
dubitanti e chin' 'e fede,
interroghiamo il cuore e le meningi
sul terrore o la felicità che hanno avuto.
Cominciamo a dissolverci, adesso.
Già torniamo.
L'insistenza in una forma non ci è data.
In fondo all'occhio e al cuore
bisogna far colare solo nebbia, e dubbio,
mai certezze, nebbia e dubbio -
'na filigrana nera, coccosa c'assumiglia
alla “posa” dissolvente d'o ccafè.
Dello stato delle cose, nuie sapimme,
che è solo tutta scumma,
sfrangiamento, orlo, bava,
scontornato perimetro gassoso
di un Impero
che, al suo Centro, ha l'Ideale,
non la Carne,
e in cui è una scommessa, un gioco,
la corsa alla Materia,
fra di noi,
l'esplodere dal dentro verso il fuori,
fra di noi,
e “a” voi,
giacchè, fango-sprofondo luminoso,
siete voi, per noi,
'n'abisso opalescente 'e forz 'e gravità,
ovverosia: distanza, distanza,
galassia bullicante al punto giusto
per una tentazione, intermittente,
'e patetico contatto,
galassia bullicante, opaca,
che anela a evaporare,
e, nell'evaporare, dall'umano,
lentamente,
agogna a scomparire.
Nun moro, no
ma neppure campo comm'apprimma
'a vista, 'e mmane, l'uocchie
tutte cose se n'è gghiut'
e pure 'a voce, ancora 'nu poco,e poi
e poi sommergerà pur'essa.
In un poco di curaro.
Eppure...eppure aret'a stu muro
coccosa ancora se annasconne,
ancora vò fa fesso i pubblici poteri,
è na luce opaca
coccosa ca se dà e po' se ne fuje
coccosa ca me tira 'a faccia
na spogna c'assuttiglia.

Ah che nuttata brillante 'e lame, 'e binari
e io ce vache mmiezo
nuttata 'e mura, cancielle, tetti e palazzi
di frammenti lasciati alle spalle
'vulanno
scavalcamenti
nuttata 'e nuvole, 'e cemmenere 'e fabbrica
e io ce vache mmiezo, e cammimo,
passanno'sti 'mmura, 
e so' sultanto scia, soffio ca se move
taglio
na refola 'e viento
sott'sott e mmura

Ah che nottata
e sposami, che fa, scuordate 'e te, amami perfino.





venerdì 24 febbraio 2017

A volte si chiedeva cosa fosse esattamente la volontà, e se dentro di lui non stesse agendo una scelta che, nell'attimo stesso in cui era stata seguita, dirigeva le fila della sua vita fino a renderlo un altro individuo. Si chiedeva, cioè, se la scelta compiuta non lo avesse condotto verso un unico mondo possibile, in confronto al quale tutti gli altri mondi, quelli che aveva sognato e quelli che lo avevano atterrito, scomparivano come nuvole spazzate dal vento. Come fantasmi senza forza.
Quando aveva pensato a cosa sarebbe stata la sua vita, a quale forma si sarebbe piegata ad avere, se mai ne avesse avuta una, aveva sentito qualcosa ribellarsi dentro sé, come per una insopportabile imposizione. Allora aveva avuto un solo desiderio: conservare più a lungo possibile, forse per sempre, la libertà di non avere nessuna forma.

mercoledì 22 febbraio 2017

magalhães

trappist-1/e
un altro pianeta che ruota intorno alla sua stella


Rischio sempre di morire davanti alla finestra aperta, ma io non do ascolto a nessuno, e penso che è inutile preoccuparsi per ogni cosa: la morte verrà quando verrà e nessuno ci potrà fare niente.
Mi porteranno via, per queste strette scale dei palazzi moderni, e avranno un gran da fare per svuotare tutto il ciarpame che è stato la mia vita.

lunedì 20 febbraio 2017

bivio

Figl’da primma vota, io me ne moro
carene 'e penziere tutt’e sere,
lassanne nu ricordo’ e spero ancora
ca m’accarizze 'a faccia e je rispiro.
Niente, è sulo niente chesta vita,
sonn’ e faccio finta 'e te sunnà.
Te cerco sempe 'ppe miez’e cose e nun te trovo maje,
ppe’ vicariell’ stritte e senza sole,
quanno pa mano tu me purtav’a scola.
Te chiamme sempe, dint’e mument' brutt‘e chesta vita,
quanno pur’io me sento abbandunato,
p’avè’ ‘o curagge ca me dive’ tu.
Nasce nu chiar’ ‘n cielo e ‘a notte more,
te cerco int’e poesie che scriv’ ancora,
tu m’accumpagn’a casa tutt’e sere, e miez’e scale pò me vas’ancora.

martedì 14 febbraio 2017

l'Enfant perdu

Il terremoto, gridai. La terra si muoveva, una tempesta invisibile mi stava scoppiando sotto i piedi, scrollava la stanza con un urlio di bosco piegato da raffiche di vento. Mi slanciai verso la porta urlando ancora: il terremoto. Ma il movimento era solo un’intenzione, non riuscivo a fare un passo. I piedi mi pesavano, pesava tutto, la testa, il petto, soprattutto la pancia. La terra su cui volevo poggiarmi si sottraeva, per una frazione di secondo c’era e poi subito dopo si allontanava. Il mio pensiero tornò a Lila, la cercai con lo sguardo. La sedia era finalmente caduta, i mobili – soprattutto una vecchia argentiera con i suoi oggettini, bicchieri, posate, cineserie – vibravano insieme ai vetri delle finestre come erbacce su un cornicione quando c’è la brezza. Lila era in piedi al centro della stanza, curva, a testa china, gli occhi stretti, la fronte corrugata, le mani che tenevano la pancia come se temesse che le schizzasse via per perdersi nello spolverio di intonaco. I secondi scivolavano via ma niente mostrava di voler tornare in ordine, la chiamai. Non reagì, mi sembrò compatta, l’unica tra tutte le forme presenti non soggetta a sussulti, a tremiti. Pareva aver cancellato ogni sentimento: le orecchie non ascoltavano, la gola non inspirava aria, la bocca era serrata, le palpebre cancellavano lo sguardo. Era un organismo immobile, rigido, vivo solo nelle mani che a dita larghe stringevano la pancia. Lila, chiamai. Mi mossi per afferrarla, trascinarla via, era la cosa più urgente da fare. Ma la mia parte subalterna, quella che credevo indebolita e invece ecco che risorgeva, mi suggerì: forse devi fare come lei, devi restare ferma, piegarti a proteggere la tua creatura, non correre via. Faticai a decidermi. Raggiungerla era difficile, e tuttavia si trattava solo di un passo. L’afferrai alla fine per un braccio, la scrollai, lei aprì gli occhi che mi sembrarono bianchi. Il rumore era insopportabile, faceva rumore tutta la città, il Vesuvio, le strade, il mare, le case vecchie dei Tribunali e dei Quartieri, quelle nuove di Posillipo. Lila si divincolò, gridò: non mi toccare. Fu un urlo rabbioso, m’è rimasto impresso più dei secondi lunghissimi del terremoto. Capii che mi ero sbagliata: lei, sempre al governo di tutto, in quel momento non stava governando niente. Era immobile per l’orrore, temeva che se solo l’avessi sfiorata si sarebbe rotta.
Il terremoto – il terremoto del 23 novembre 1980 con quel suo frantumare infinito – ci entrò dentro le ossa. Cacciò via la consuetudine della stabilità e della solidità, la certezza che ogni attimo sarebbe stato identico a quello seguente, la familiarità dei suoni e dei gesti, la loro sicura riconoscibilità. Subentrò il sospetto verso ogni rassicurazione, la tendenza a credere a ogni profezia di sventura, un’attenzione angosciata ai segni della friabilità del mondo, e fu arduo riprendere il controllo. Secondi e secondi e secondi che non finivano. La città è pericolosa, mi sussurrò, ce ne dobbiamo andare, le case si crepano, ci cade tutto addosso, le fogne schizzano per aria, guarda i topi come scappano.
Mi strinse forte la mano e chiuse gli occhi quando la macchina di Marcello montò sul marciapiede strombazzando e filò via tra la gente che sostava in chiacchiere. Esclamò: oh Madonna, espressione che non le avevo mai sentito usare. Che c’è, le chiesi. Gridò ansimando che l’auto s’era smarginata, anche Marcello al volante si stava smarginando, la cosa e la persona zampillavano da loro stesse mescolando metallo liquido e carne. Usò proprio smarginare. Fu in quell’occasione che ricorse per la prima volta a quel verbo, si affannò a esplicitarne il senso, voleva che capissi bene cos’era la smarginatura e quanto l’atterriva. Mi strinse ancora più forte la mano, annaspando. Disse che i contorni di cose e persone erano delicati, che si spezzavano come il filo del cotone. Mormorò che per lei era così da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi. Esclamò che aveva dovuto sempre faticare per convincersi che la vita aveva margini robusti, perché sapeva fin da piccola che non era così – non era assolutamente così –, e perciò della loro resistenza a urti e spintoni non riusciva a fidarsi. Contrariamente a come aveva fatto fino a poco prima, prese a scandire frasi sovreccitate, abbondanti, ora impastandole con un lessico dialettale, ora attingendo alle mille letture fatte da ragazzina. Borbottò che non doveva mai distrarsi, se si distraeva le cose vere, che con le loro contorsioni violente, dolorose, la terrorizzavano, prendevano il sopravvento su quelle finte che con la loro compostezza fisica e morale la calmavano, e lei sprofondava in una realtà pasticciata, collacea, senza riuscire più a dare contorni nitidi alle sensazioni. Un’emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in olfattiva, ah che cos’è il mondo vero, Lenù, l’abbiamo visto adesso, niente niente niente di cui si possa dire definitivamente: è così. Per cui se lei non stava attenta, se non badava ai margini, tutto se ne andava via in grumi sanguigni di mestruo, in polipi sarcomatosi, in pezzi di fibra giallastra.

domenica 12 febbraio 2017

i
am
thy
shield

sabato 11 febbraio 2017

rosebud, what does that mean

L’ho rifatto.
Un anno ogni dieci
mi riesce —
una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
splendente come un paralume nazista,
il piede destro
un fermacarte,
il viso, anonima e fine
tela ebraica.
Solleva il panno,
o mio nemico.
Incuto terrore? —
Il naso, le occhiaie vuote, tutti i denti?
L’alito puzzolente
svanirà in un giorno.
Presto, presto la carne
che il severo sepolcro ha divorato
tornerà al suo posto su di me,
e sarò una donna sorridente.
Ho trent’anni soltanto.
E come i gatti ho nove volte per morire.
Questa è la Numero Tre.
Quanto ciarpame
da annientare ogni decennio,
che miriade di filamenti.
La folla che sgranocchia noccioline
spintona per vedere
mentre vengo sbendata mani e piedi —
il grande spogliarello.
Signori e signore,
ecco qua le mie mani,
le ginocchia.
Sarò pure pelle e ossa,
ma sono sempre la stessa identica donna.
La prima volta avevo dieci anni.
Fu un incidente.
La seconda volevo
andare fino in fondo senza ritorno.
Cullandomi mi chiusi
come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
e staccarmi di dosso i vermi come perle appiccicose.
Morire
è un’arte, come qualunque altra cosa.
Io lo faccio in modo magistrale,
lo faccio che fa un effetto da impazzire
lo faccio che fa un effetto vero.
Potreste dire che ho la vocazione.
È facile farlo in una cella.
È facile farlo e rimanerci.
È il teatrale
ritorno in scena in pieno giorno,
stesso posto, stessa faccia, stesso bestiale
urlo goduto:
«Miracolo!»
è questo che mi stende.
Si paga
per vedere le mie cicatrici, si paga
per ascoltarmi il cuore —
funziona eccome.
E si paga, si paga salato
per sentire una parola, per toccare,
per un goccio di sangue,
una ciocca di capelli, un brandello di veste.
E così, Herr Doktor,
e così, Herr Nemico.
Sono il tuo capolavoro,
il tuo bene prezioso
l’infante d’oro puro
che si scioglie in un grido.
Mi rigiro e brucio.
Non credere che sottovalutati le tue sollecite cure.
Cenere, cenere —
Frughi e rimesti.
Carne, ossa, non ci sono resti —
una saponetta,
una vera nuziale,
una capsula dentaria.
Herr Dio, Herr Lucifero
in guardia
in guardia.
Dalla cenere
sorgo con i miei capelli rossi
e divoro gli uomini come aria

mercoledì 8 febbraio 2017

avrò per quella che non ode parole che non sono parole d’uomo.

giovedì 2 febbraio 2017

Lei lavorò a tagliare la carne con accanimento, aveva voglia di far male e farsi male. Ficcarsi il coltello nella mano, farlo scivolare, adesso, dalla carne morta a quella sua, viva. Urlare, scagliarsi contro gli altri, far pagare a tutti la sua incapacità di trovare un equilibrio. Ah, Lina Cerullo, sei incorreggibile. Perché hai messo su quell’elenco? Non vuoi farti sfruttare? Vuoi migliorare la tua condizione e quella di questa gente? Sei convinta che tu, loro, comincerete da qui, da ciò che siete adesso, e poi vi unirete alla marcia vittoriosa del proletariato di tutto il mondo? Macché. Marcia per diventare cosa? Ancora e sempre operai? Operai che sgobbano dalla mattina alla sera, ma al potere? Stronzate. Aria fritta per indorare la pillola della fatica. Sai bene che è una condizione terribile, non va migliorata ma cancellata, lo sai fin da piccola. Migliorare, migliorarsi? Tu, per esempio, sei migliorata, sei diventata come Nadia o Isabella? Tuo fratello è migliorato, è diventato come Armando? E tuo figlio è come Marco? No, noi restiamo noi loro loro. Allora perché non ti rassegni? Colpa della testa che non sa calmarsi, cerca di continuo un modo per funzionare. Disegnare scarpe. Brigare per mettere su un calzaturificio. Riscrivere gli articoli di Nino, ossessionarlo fino a che non faceva come dicevi tu. Usare a modo tuo le dispense di Zurigo, con Enzo. E adesso dimostrare a Nadia che se lei fa la rivoluzione, tu la fai ancora di più. La testa, ah sì, il male è là, è per l’insoddisfazione della testa che il corpo si sta ammalando. Sono stufa di me, di tutto. Sono stufa anche di Gennaro: il suo destino, se gli va bene, è finire in un posto come questo a strisciare per cinque lire in più davanti a qualche padrone. Allora? Allora, Cerullo, prenditi le tue responsabilità e fa’ quello che hai sempre avuto in mente: spaventare Soccavo, togliergli il vizio di chiavarsi le operaie dentro l’essiccatoio. Fa’ vedere che cosa hai saputo preparare allo studente con la faccia da lupo. Quell’estate a Ischia. Le bibite, la casa di Forio, il letto lussuoso su cui sono stata con Nino. I soldi venivano da questo posto, da questo malodore, da queste giornate passate nello schifo, da questa fatica pagata poche lire. Cosa ho tagliato, qui? Schizza fuori una pasta giallastra, che ribrezzo. Il mondo gira ma, meno male, se cade si rompe.
história de quem vai e de quem fica


lunedì 30 gennaio 2017

rapporto dalla città assediata

Buonanotte Marco spegni il lume
e chiudi il libro. Già alto si leva
l’argenteo allarme delle stelle
il cielo parla con lingua straniera
e il barbaro grido del terrore
che il tuo latino non conosce
è la paura l’eterna oscura paura
ora batte sulla fragile terra

umana. E vincerà. Odi il rombo
è la marea. Distruggerà i tuoi
libri l’inarrestabile fiumana
e del mondo crolleranno i muri
quanto a noi - tremare al vento e
di nuovo smuovere ceneri aria
morder le dita a dir parole vane
trascinarci dietro ombre di morti

perciò Marco sospendi la tua quiete
dammi la mano sopra le tenebre
lascia che essa tremi quando il cieco
universo picchia sui cinque sensi
ci tradiranno universo astronomia
computo di stelle saggezza d’erbe
e la tua grandezza troppo immensa
e il pianto mio impotente, Marco

venerdì 27 gennaio 2017

fuochi nella notte di san giovanni

Parlano piano al sole le ombre stanche di rumorose rabbie e infinite
menzogne
Lunghe di sterminati fili in lunga fila sorde ai tonfi di corpi che
vengono abbattuti
Tra poco arrossa il cielo della sera sospeso tra azzurri spazi gelidi e
lande desolate
Quietami i pensieri e le mani e in questa veglia pacificami il cuore
Così vanno le cose, così devono andare
S'alzano sotto cieli spenti i canti di chi è nato alla terra ora di
volontà focose speranze
E da energie costretto e si muove alla danza
Festa stanotte di misere tribù sparse impotenti, di nuclei solitari che
è raro di vedere insieme ancora
E s'alzano i canti e si muove la danza
Muoiono i preti rinsecchiti e vecchi e muoiono i pastori senza mandrie
Spaventati i guerrieri, persi alla meta i viaggiatori
La saggezza è impazzita, non sa l'intelligenza
La ragione è nel torto, conscia l'ingenuità
Ma non tacciono i canti e si muove la danza
Quietami i pensieri e il canto e in questa veglia pacificami il cuore
Così vanno le cose, così devono andare

mercoledì 25 gennaio 2017

di questa vita menzognera

La città si stava trasformando e nessuno sembrava sorpreso dai cambiamenti. Lei ripeteva sconsolata che ormai anche le facce delle persone si erano trasformate, e che tutto era finito, per sempre. Una sera ci eravamo sfiorati per caso restando allacciati come per proteggerci dai motorini che sgommavano, dalle frasi biascicate nei cellulari, dalle urla.
E un pomeriggio avevamo fatto l'amore in una macchia di alberi scampata alla devastazione dell'Orto Botanico.
Avevo la sensazione che il tempo mi mancasse, che sarei morto da un momento all'altro, e stringendole un polso volevo trascinarla di nuovo lì. "Lasciami, basta!" "Ma perchè?" "Perchè lo fai per disperazione e non mi piace". A volte lei mi prendeva la faccia tra le mani e ci baciavamo a lungo, in piedi contro un portone sopravvissuto o dentro un androne buio, con i denti che si urtavano e stringendoci fino a sentire le ossa che dolevano. Come se continuassimo a parlare anche quando restavamo muti di fronte a quello che accadeva, a un tratto rompevamo il silenzio, costretti a gridare per riuscire a sentirci in mezzo ai motorini, alle ruspe. Le urlavo che la amavo.
Lei allungava il passo e diceva che non avevo imparato a dimenticare.
Ma io sapevo di avere dimenticato anche troppo, e avrei voluto ritornare a prima dei giorni sbadati e inutili, a prima dell'ansia che mi mordeva allo stomaco senza preavviso. Se provavo davvero a ricordare ero afferrato dalla nausea, e mi veniva voglia di picchiare le facce per strada. "Che cosa abbiamo da fare in questo mondo con il nostro amore, la nostra fedeltà". Le parole di Novalis mi ossessionavano, e gliele ripetevo. Lei mi guardava scuotendo la testa, diceva che forse io ero l'unico a capire anche se restavo un idiota. Mi arruffava i capelli spingendomi via e a bassa voce cominciava a canticchiare una canzone, sempre la stessa, come tirandola fuori da un pozzo profondo. Dance me through the panic, dance me very long, dance me to the end of love. 

domenica 22 gennaio 2017

saulo

Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio

Caro Adriano
al telefono dici “va bene, sentiamoci..” e mi resta sempre il sentimento di averti disturbato. Che ci sentiamo un’altra volta, questa volta no! Non so se “ci sentiamo” sia uguale a “come stai?”, una espressione obbligata della forma, a cui bisogna sempre rispondere nello stesso modo.
Vorrei lamentarmi molto, ma non ho appigli e non so dove portare il mio lamento. Bisogna, mi pare di capire, essere asciutti come marinai o come donne che hanno già pianto. Bisogna sapere che quello che ci aspetta lo abbiamo già avuto e che adesso il naso prende perché il tempo incalza. E smonta i volti, ne riscrivere la trama. Io per esempio a volte ho l' impressione che il tempo cancelli gli zigomi come se questi fossero scritti con la matita, sicchè mi prende la nausea di avere quasi quarant' anni e una faccia da bambina pesta. Destinata a invecchiare in un solo giorno, dopo una decisiva tempesta ormonale (le facce un certo punto si rivestono del carattere dell' opinione che sia ha di se. Credo che lo status serva a questo; a difendersi dallo smascheramento del tempo).
A Vienna ho conosciuto il Dalai Lama. Rispondeva ai giornalisti con molta leggerezza mescolando le parole alle risate. Ha detto che milioni di cinesi crescono senza avere la nozione della spiritualità né del sentimento della religione. Lui può insegnare loro la nonviolenza e questa è l' unica possibilità vera per la Cina e per gli altri che il bene  vinca sul male. Quest' ultima cosa la dico io: per i tibetani non c'è bene e non c'è male.
C'è solo il divenire la trasformazione e la completa partecipazione all' attimo che segue l' attimo.
questo vuol dire essere centrati in se stessi, godere dell' universo, essere un vuoto dove passa ogni cosa.
Dove non c'è paura. E’ una condizione che conosciamo anche noi sebbene non la perseguiamo come permanente nella sua trasformazione. A me accade di provarla quando faccio una cosa qualunque, lavare i piatti o giocare con la bella Mimina, e sono tutta in quella cosa.
Allora, prima che la mente mi mostri me stessa, nell' atto compiuto (quando arriva la mente è già tutto accaduto) io provo un grande benessere e una assoluta mancanza di fatica.
Naturalmente mi accade di essere vuoto anche quando scrivo. Allora è come se la scrittura fosse automatica, come se io non ci fossi. C'è un grande silenzio e le parole vengono da sole. Sono belle perfette: il punto più vicino alla verità che mi è concesso di conoscere. La creazione accade nel vuoto. E questa è la preghiera. Così quando mi sono mescolata alla folla dei fedeli del Dalai Lama e l' ho raggiunto, mi è presa una specie di paralisi e non riuscivo a risolvermi a fare più nulla.
Sono stata spinta verso di lui e mi sono aggrappata alla mano che tendeva. Ho sentito una esplosione di calore al centro del petto e un dolore acre alla gola, come quando si corre molto e viene la fatica del respiro. Sono rimasta alcuni secondi incapace di tirare il fiato, con il sentimento che avrei potuto svenire.
Poi ho aperto i polmoni ed ero felice come quando da piccola tornavo da una processione (ho sempre pensato che le processioni fossero un appuntamento mio personale con i santi la Madonna il Sacro Cuore di Gesù). Quando sono tornata in albergo cercavo su me stessa il segno lasciato dall' energia dell'incontro. C'era, ma tu mi prenderesti in giro.
Ho pensato che fosse giusto apparire sui giornali nascosti interamente da lettere Save Tibet come tibetani che dimostravano all' interno della Conferenza dei Governi.
Una buona azione viene sempre premiata. Era d'accordo anche Calvino: il premio del bene è il bene compiuto. Queste riflessioni non mi hanno impedito di massacrare una ragazza tedesca che stava con noi. Come dice Sergio, sono una razzista dell'intelligenza. Secondo me sono una ragazza della via Pal.
Allora “ci sentiamo”…

Mariateresa
estate '94

ostiense

ma il quartiere che mi piace di più è la Garbatella, e me ne vado in giro per i lotti popolari

martedì 17 gennaio 2017

san giovanni

Nuje ce simmo visti pè na vota sola
nun ce simmo ditte manco 'na parola
però 'o munno era già fernuto
e nuje stevemo già
tutt'e dduje 'ncoppo 'a na stella scanusciuta

Avimmo accuminciato tutta n'ata vita
senza cchiù 'e bbucie d''a gente
ca sape sulo parlà

forze je songo l'urdemo che ddice ancora
je voglio 'a te
oggi ammore dure niente o poc' 'e cchiù
però quanno stammo 'nzieme 'o ssaccio chesta è a verità
nuje simmo 'e n'ata manera e durarrà

sarraje pè mme na casa ca
'e mmura affonna' int''o turreno
e sempe sta
diritta annanz' a chello ca ogni juorno
ca passa a vita te dà

Passa 'o tiempo e tutt'e juorne da 'a raggione
a chi c'ha creduto a chi ce crede ancora
ca nisciuno è sulo e sulo sempre no nun se pò stà
'mmiezo a chistu mare futo e senza sole
je t'aggio cercato dint'a 'n'emozione
e tu n'ommo vivo n'ata vota m'e fatto turnà
forze je songo l'urdemo che ddice ancora
je voglio 'a te
oggi ammore dure niente o poc' 'e cchiù
però quanno stammo 'nzieme 'o ssaccio chesta è a verità
nuje simmo 'e n'ata manera e durarrà

sarraje pè mme na casa ca
'e mmura affonna' int''o turreno
e sempe sta
diritta annanz' a chello ca ogni juorno
ca passa a vita te dà
chesto tu sij e sarraje pe 'mme
cchiù e qualunque cosa ca uno pò vulè
comme 'na preta tu si ggià
ca 'a nu colpo 'e viento nun se fa purtà

sabato 14 gennaio 2017

沈黙

Roma 22 aprile 2016

Caro Papa Francesco,
Ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano – vicino al cielo – per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa.
Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano.
Questa passione è il verbo dello “Spirito” che muove il mondo. Lo vedo dalla mia piccola finestra con le piante impazzite che si muovono a questo vento e gabbiani che lo accompagnano.
In questo tempo non posso più uscire, ma ti sto accanto in tutte le uscite che fai tu.
Un pensiero fisso mi accompagna ancora oggi: “spes contra spem”.
Caro Papa Francisco, sono più avanti di te negli anni, ma credo che anche tu ti trovi a dover vivere “spes contra spem”.

TI VOGLIO BENE DAVVERO
TUO MARCO

PS Ho preso in mano la croce che portava Romero, e non riesco a staccarmene.

martedì 10 gennaio 2017

siamo complici io e te

Celsius

ottaviano

la ville change
mais rien dans ma mélancolie n'a bougè












l'avversario

Sì. Detta così l'ispirazione:
la mia libera fantasia s'appiglia
sempre a quei luoghi dov'è umiliazione,
dov'è sporcizia e tenebra e indigenza.
Laggiù, laggiù, con più umiltà, più in basso, -
di là si scorge meglio un altro mondo...
Hai mai visto i bambini a Parigi
o sul ponte i poveri d'inverno?
Dischiudi gli occhi, schiudili al più presto
sul fittissimo orrore della vita,
prima che un grande nubifragio spazzi
tutto quello che c'è nella tua patria, -
lascia maturare il giusto sdegno,
prepara al lavoro le braccia...
E se non puoi, fa sì che in te si accumuli
e divampi il fastidio e la mestizia...
Ma di questa vita menzognera
cancella l'untuoso rossetto
e, come talpa timida, nasconditi
sotto terra alla luce ed impietrisci,
tutta la vita odiando con ferocia
e tenendo in dispregio questo mondo,
e, anche se tu non veda l'avvenire,
dì no alle cose del presente

promuovi lo sviluppo di una città
sollevati al di sopra della sua polvere
assumi un ufficio
e simula
per evitare di essere scoperto
mantieni le promesse
davanti a uno specchio cieco, nell'aria
davanti a una porta chiusa, nel vento

venerdì 6 gennaio 2017

piedad

Per la prima volta andai fuori da Napoli, fuori dalla Campania. Scoprii che avevo paura di tutto: paura di sbagliare treno, paura di dover pisciare e non sapere dove farlo, paura che si facesse notte e non riuscissi a orientarmi in una città sconosciuta, paura di essere derubata. Misi tutti i miei soldi nel reggipetto, come faceva mia madre, e passai ore in un’ansia guardinga che convisse senza soluzione di continuità con un senso crescente di liberazione. Tutto andò per il meglio. Tranne l’esame, mi parve. La professoressa dai capelli turchini mi aveva taciuto che sarebbe stato molto più difficile di quello di maturità. Il latino, soprattutto, mi sembrò complicatissimo, ma quello in realtà fu solo il picco più alto: ogni prova diventò occasione per un’indagine cavillosissima sulle mie competenze. Sproloquiai, balbettai, finsi spesso di avere la risposta sulla punta della lingua. Il professore di italiano mi trattò come se anche il suono della mia voce lo infastidisse: lei, signorina, più che scrivere argomentando, scrive sfarfallando; vedo, signorina, che si butta con spericolatezza su questioni di cui ignora del tutto i problemi di impostazione critica. Mi depressi, persi presto fiducia in ciò che dicevo. Il professore se ne accorse e, guardandomi con ironia, mi chiese di parlargli di qualcosa che avevo letto di recente. Intendeva qualcosa di un autore italiano, immagino, ma io non capii e mi aggrappai al primo appiglio che mi sembrò sicuro, vale a dire ai discorsi che avevamo fatto l’estate precedente, a Ischia, sulla spiaggia di Citara, a proposito di Beckett e di Dan Rooney che, pur essendo cieco, voleva diventare anche sordo e muto. L’espressione ironica del professore si mutò pian piano in una smorfia perplessa. M’interruppe presto e mi consegnò al professore di storia. Questi non fu da meno. Mi sottopose a un elenco infinito ed estenuante di domande formulate con estrema precisione. Fino a quel momento non mi ero mai sentita così ignorante, nemmeno negli anni scolastici peggiori, quelli in cui avevo dato pessima prova di me. Seppi rispondere a tutto, date, fatti, ma sempre in modo approssimativo. Appena lui m’incalzava con domande ancora più stringenti, io cedevo. Alla fine mi chiese disgustato: «Ha mai letto qualcosa che non sia il puro e semplice manuale scolastico?». Risposi: «Ho studiato l’idea di nazione». «Si ricorda l’autore del libro?». «Federico Chabod». «Sentiamo cosa ha capito». Mi ascoltò con attenzione per qualche minuto, poi bruscamente mi congedò lasciandomi la certezza di aver detto sciocchezze. Piansi molto, come se avessi perso da qualche parte, per sbadataggine, la parte più promettente di me. Poi mi dissi che disperarmi era stupido, sapevo da sempre di non essere veramente brava. Lila sì che era brava, Nino sì che era bravo. Io ero solo presuntuosa e giustamente ero stata punita. Invece appresi che avevo superato l’esame. Avrei avuto un posto mio, un letto che non dovevo fare la sera e disfare la mattina, una scrivania e tutti i libri che mi servivano. Io, Elena Greco, la figlia dell’usciere, a diciannove anni stavo per tirarmi fuori dal rione, stavo per lasciare Napoli. Da sola.

regionale 2383

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire la parola d’un poeta o il mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

black star

Cheena so sound, so titi up this malchick, say
Party up moodge, nanti vellocet round on Tuesday
Real bad dizzy snatch making all the omies mad – Thursday
Popo blind to the polly in the hole by Friday

Where the fuck did Monday go?
I’m cold to this pig and pug show
I’m sittin’ in the chestnut tree
Who the fuck’s gonna mess with me?

You viddy at the cheena
Choodesny with the red rot
Libbilubbing litso-fitso
Devotchka watch her garbles
Spatchko at the rozz-shop
Split a ded from his deng deng
Viddy viddy at the cheena

Girl loves me
(Hey cheena)
Girl loves me

Where the fuck did Monday go

smarginatura

Il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura. Il temine non è mio, lo ha sempre utilizzato lei forzando il significato comune della parola. Diceva che in quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose. Quando quella notte, in cima al terrazzo dove stavamo festeggiando l’arrivo del 1959, fu investita bruscamente da una sensazione di quel tipo, si spaventò e si tenne la cosa per sé, ancora incapace di nominarla. Solo anni dopo, una sera del novembre 1980 – avevamo entrambe trentasei anni –, mi raccontò minutamente cosa le era accaduto in quella circostanza, cosa ancora le accadeva, e ricorse per la prima volta a quel vocabolo. Eravamo all’aperto, in cima a una delle palazzine del rione. Sebbene facesse molto freddo avevamo messo abiti leggeri e scollati per sembrare belle. Guardavamo i maschi, che erano allegri, aggressivi, figure nere travolte dalla festa, dal cibo, dallo spumante. Accendevano le micce dei fuochi d’artificio per festeggiare l’anno nuovo, ma all’improvviso – mi disse –, malgrado il freddo aveva cominciato a coprirsi di sudore. Le era sembrato che tutti gridassero troppo e che si muovessero troppo velocemente. Questa sensazione si era accompagnata a una nausea e lei aveva avuto l’impressione che qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a lei e intorno a tutti e a tutto da sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stesse spezzando i contorni di persone e cose rivelandosi. Il cuore le si era messo a battere in modo incontrollato. Aveva cominciato a provare orrore per le urla che uscivano dalle gole di tutti quelli che si muovevano per il terrazzo tra i fumi, tra gli scoppi, come se la loro sonorità obbedisse a leggi nuove e sconosciute. Le era montata la nausea, il dialetto aveva perso ogni consuetudine, le era diventato insopportabile il modo secondo cui le nostre gole umide bagnavano le parole nel liquido della saliva. Un senso di repulsione aveva investito tutti i corpi in movimento, la loro struttura ossea, la frenesia che li scuoteva. Come siamo mal formati, aveva pensato, come siamo insufficienti.  Il tumulto del cuore l’aveva sopraffatta, si era sentita soffocare. Troppo fumo, troppo malodore, troppo lampeggiare di fuochi nel cielo.