venerdì 6 gennaio 2017

piedad

Per la prima volta andai fuori da Napoli, fuori dalla Campania. Scoprii che avevo paura di tutto: paura di sbagliare treno, paura di dover pisciare e non sapere dove farlo, paura che si facesse notte e non riuscissi a orientarmi in una città sconosciuta, paura di essere derubata. Misi tutti i miei soldi nel reggipetto, come faceva mia madre, e passai ore in un’ansia guardinga che convisse senza soluzione di continuità con un senso crescente di liberazione. Tutto andò per il meglio. Tranne l’esame, mi parve. La professoressa dai capelli turchini mi aveva taciuto che sarebbe stato molto più difficile di quello di maturità. Il latino, soprattutto, mi sembrò complicatissimo, ma quello in realtà fu solo il picco più alto: ogni prova diventò occasione per un’indagine cavillosissima sulle mie competenze. Sproloquiai, balbettai, finsi spesso di avere la risposta sulla punta della lingua. Il professore di italiano mi trattò come se anche il suono della mia voce lo infastidisse: lei, signorina, più che scrivere argomentando, scrive sfarfallando; vedo, signorina, che si butta con spericolatezza su questioni di cui ignora del tutto i problemi di impostazione critica. Mi depressi, persi presto fiducia in ciò che dicevo. Il professore se ne accorse e, guardandomi con ironia, mi chiese di parlargli di qualcosa che avevo letto di recente. Intendeva qualcosa di un autore italiano, immagino, ma io non capii e mi aggrappai al primo appiglio che mi sembrò sicuro, vale a dire ai discorsi che avevamo fatto l’estate precedente, a Ischia, sulla spiaggia di Citara, a proposito di Beckett e di Dan Rooney che, pur essendo cieco, voleva diventare anche sordo e muto. L’espressione ironica del professore si mutò pian piano in una smorfia perplessa. M’interruppe presto e mi consegnò al professore di storia. Questi non fu da meno. Mi sottopose a un elenco infinito ed estenuante di domande formulate con estrema precisione. Fino a quel momento non mi ero mai sentita così ignorante, nemmeno negli anni scolastici peggiori, quelli in cui avevo dato pessima prova di me. Seppi rispondere a tutto, date, fatti, ma sempre in modo approssimativo. Appena lui m’incalzava con domande ancora più stringenti, io cedevo. Alla fine mi chiese disgustato: «Ha mai letto qualcosa che non sia il puro e semplice manuale scolastico?». Risposi: «Ho studiato l’idea di nazione». «Si ricorda l’autore del libro?». «Federico Chabod». «Sentiamo cosa ha capito». Mi ascoltò con attenzione per qualche minuto, poi bruscamente mi congedò lasciandomi la certezza di aver detto sciocchezze. Piansi molto, come se avessi perso da qualche parte, per sbadataggine, la parte più promettente di me. Poi mi dissi che disperarmi era stupido, sapevo da sempre di non essere veramente brava. Lila sì che era brava, Nino sì che era bravo. Io ero solo presuntuosa e giustamente ero stata punita. Invece appresi che avevo superato l’esame. Avrei avuto un posto mio, un letto che non dovevo fare la sera e disfare la mattina, una scrivania e tutti i libri che mi servivano. Io, Elena Greco, la figlia dell’usciere, a diciannove anni stavo per tirarmi fuori dal rione, stavo per lasciare Napoli. Da sola.