venerdì 24 febbraio 2017

A volte si chiedeva cosa fosse esattamente la volontà, e se dentro di lui non stesse agendo una scelta che, nell'attimo stesso in cui era stata seguita, dirigeva le fila della sua vita fino a renderlo un altro individuo. Si chiedeva, cioè, se la scelta compiuta non lo avesse condotto verso un unico mondo possibile, in confronto al quale tutti gli altri mondi, quelli che aveva sognato e quelli che lo avevano atterrito, scomparivano come nuvole spazzate dal vento. Come fantasmi senza forza.
Quando aveva pensato a cosa sarebbe stata la sua vita, a quale forma si sarebbe piegata ad avere, se mai ne avesse avuta una, aveva sentito qualcosa ribellarsi dentro sé, come per una insopportabile imposizione. Allora aveva avuto un solo desiderio: conservare più a lungo possibile, forse per sempre, la libertà di non avere nessuna forma.

mercoledì 22 febbraio 2017

magalhães

trappist-1/e
un altro pianeta che ruota intorno alla sua stella


Rischio sempre di morire davanti alla finestra aperta, ma io non do ascolto a nessuno, e penso che è inutile preoccuparsi per ogni cosa: la morte verrà quando verrà e nessuno ci potrà fare niente.
Mi porteranno via, per queste strette scale dei palazzi moderni, e avranno un gran da fare per svuotare tutto il ciarpame che è stato la mia vita.

lunedì 20 febbraio 2017

bivio

Figl’da primma vota, io me ne moro
carene 'e penziere tutt’e sere,
lassanne nu ricordo’ e spero ancora
ca m’accarizze 'a faccia e je rispiro.
Niente, è sulo niente chesta vita,
sonn’ e faccio finta 'e te sunnà.
Te cerco sempe 'ppe miez’e cose e nun te trovo maje,
ppe’ vicariell’ stritte e senza sole,
quanno pa mano tu me purtav’a scola.
Te chiamme sempe, dint’e mument' brutt‘e chesta vita,
quanno pur’io me sento abbandunato,
p’avè’ ‘o curagge ca me dive’ tu.
Nasce nu chiar’ ‘n cielo e ‘a notte more,
te cerco int’e poesie che scriv’ ancora,
tu m’accumpagn’a casa tutt’e sere, e miez’e scale pò me vas’ancora.

martedì 14 febbraio 2017

l'Enfant perdu

Il terremoto, gridai. La terra si muoveva, una tempesta invisibile mi stava scoppiando sotto i piedi, scrollava la stanza con un urlio di bosco piegato da raffiche di vento. Mi slanciai verso la porta urlando ancora: il terremoto. Ma il movimento era solo un’intenzione, non riuscivo a fare un passo. I piedi mi pesavano, pesava tutto, la testa, il petto, soprattutto la pancia. La terra su cui volevo poggiarmi si sottraeva, per una frazione di secondo c’era e poi subito dopo si allontanava. Il mio pensiero tornò a Lila, la cercai con lo sguardo. La sedia era finalmente caduta, i mobili – soprattutto una vecchia argentiera con i suoi oggettini, bicchieri, posate, cineserie – vibravano insieme ai vetri delle finestre come erbacce su un cornicione quando c’è la brezza. Lila era in piedi al centro della stanza, curva, a testa china, gli occhi stretti, la fronte corrugata, le mani che tenevano la pancia come se temesse che le schizzasse via per perdersi nello spolverio di intonaco. I secondi scivolavano via ma niente mostrava di voler tornare in ordine, la chiamai. Non reagì, mi sembrò compatta, l’unica tra tutte le forme presenti non soggetta a sussulti, a tremiti. Pareva aver cancellato ogni sentimento: le orecchie non ascoltavano, la gola non inspirava aria, la bocca era serrata, le palpebre cancellavano lo sguardo. Era un organismo immobile, rigido, vivo solo nelle mani che a dita larghe stringevano la pancia. Lila, chiamai. Mi mossi per afferrarla, trascinarla via, era la cosa più urgente da fare. Ma la mia parte subalterna, quella che credevo indebolita e invece ecco che risorgeva, mi suggerì: forse devi fare come lei, devi restare ferma, piegarti a proteggere la tua creatura, non correre via. Faticai a decidermi. Raggiungerla era difficile, e tuttavia si trattava solo di un passo. L’afferrai alla fine per un braccio, la scrollai, lei aprì gli occhi che mi sembrarono bianchi. Il rumore era insopportabile, faceva rumore tutta la città, il Vesuvio, le strade, il mare, le case vecchie dei Tribunali e dei Quartieri, quelle nuove di Posillipo. Lila si divincolò, gridò: non mi toccare. Fu un urlo rabbioso, m’è rimasto impresso più dei secondi lunghissimi del terremoto. Capii che mi ero sbagliata: lei, sempre al governo di tutto, in quel momento non stava governando niente. Era immobile per l’orrore, temeva che se solo l’avessi sfiorata si sarebbe rotta.
Il terremoto – il terremoto del 23 novembre 1980 con quel suo frantumare infinito – ci entrò dentro le ossa. Cacciò via la consuetudine della stabilità e della solidità, la certezza che ogni attimo sarebbe stato identico a quello seguente, la familiarità dei suoni e dei gesti, la loro sicura riconoscibilità. Subentrò il sospetto verso ogni rassicurazione, la tendenza a credere a ogni profezia di sventura, un’attenzione angosciata ai segni della friabilità del mondo, e fu arduo riprendere il controllo. Secondi e secondi e secondi che non finivano. La città è pericolosa, mi sussurrò, ce ne dobbiamo andare, le case si crepano, ci cade tutto addosso, le fogne schizzano per aria, guarda i topi come scappano.
Mi strinse forte la mano e chiuse gli occhi quando la macchina di Marcello montò sul marciapiede strombazzando e filò via tra la gente che sostava in chiacchiere. Esclamò: oh Madonna, espressione che non le avevo mai sentito usare. Che c’è, le chiesi. Gridò ansimando che l’auto s’era smarginata, anche Marcello al volante si stava smarginando, la cosa e la persona zampillavano da loro stesse mescolando metallo liquido e carne. Usò proprio smarginare. Fu in quell’occasione che ricorse per la prima volta a quel verbo, si affannò a esplicitarne il senso, voleva che capissi bene cos’era la smarginatura e quanto l’atterriva. Mi strinse ancora più forte la mano, annaspando. Disse che i contorni di cose e persone erano delicati, che si spezzavano come il filo del cotone. Mormorò che per lei era così da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi. Esclamò che aveva dovuto sempre faticare per convincersi che la vita aveva margini robusti, perché sapeva fin da piccola che non era così – non era assolutamente così –, e perciò della loro resistenza a urti e spintoni non riusciva a fidarsi. Contrariamente a come aveva fatto fino a poco prima, prese a scandire frasi sovreccitate, abbondanti, ora impastandole con un lessico dialettale, ora attingendo alle mille letture fatte da ragazzina. Borbottò che non doveva mai distrarsi, se si distraeva le cose vere, che con le loro contorsioni violente, dolorose, la terrorizzavano, prendevano il sopravvento su quelle finte che con la loro compostezza fisica e morale la calmavano, e lei sprofondava in una realtà pasticciata, collacea, senza riuscire più a dare contorni nitidi alle sensazioni. Un’emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in olfattiva, ah che cos’è il mondo vero, Lenù, l’abbiamo visto adesso, niente niente niente di cui si possa dire definitivamente: è così. Per cui se lei non stava attenta, se non badava ai margini, tutto se ne andava via in grumi sanguigni di mestruo, in polipi sarcomatosi, in pezzi di fibra giallastra.

domenica 12 febbraio 2017

i
am
thy
shield

sabato 11 febbraio 2017

rosebud, what does that mean

L’ho rifatto.
Un anno ogni dieci
mi riesce —
una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
splendente come un paralume nazista,
il piede destro
un fermacarte,
il viso, anonima e fine
tela ebraica.
Solleva il panno,
o mio nemico.
Incuto terrore? —
Il naso, le occhiaie vuote, tutti i denti?
L’alito puzzolente
svanirà in un giorno.
Presto, presto la carne
che il severo sepolcro ha divorato
tornerà al suo posto su di me,
e sarò una donna sorridente.
Ho trent’anni soltanto.
E come i gatti ho nove volte per morire.
Questa è la Numero Tre.
Quanto ciarpame
da annientare ogni decennio,
che miriade di filamenti.
La folla che sgranocchia noccioline
spintona per vedere
mentre vengo sbendata mani e piedi —
il grande spogliarello.
Signori e signore,
ecco qua le mie mani,
le ginocchia.
Sarò pure pelle e ossa,
ma sono sempre la stessa identica donna.
La prima volta avevo dieci anni.
Fu un incidente.
La seconda volevo
andare fino in fondo senza ritorno.
Cullandomi mi chiusi
come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
e staccarmi di dosso i vermi come perle appiccicose.
Morire
è un’arte, come qualunque altra cosa.
Io lo faccio in modo magistrale,
lo faccio che fa un effetto da impazzire
lo faccio che fa un effetto vero.
Potreste dire che ho la vocazione.
È facile farlo in una cella.
È facile farlo e rimanerci.
È il teatrale
ritorno in scena in pieno giorno,
stesso posto, stessa faccia, stesso bestiale
urlo goduto:
«Miracolo!»
è questo che mi stende.
Si paga
per vedere le mie cicatrici, si paga
per ascoltarmi il cuore —
funziona eccome.
E si paga, si paga salato
per sentire una parola, per toccare,
per un goccio di sangue,
una ciocca di capelli, un brandello di veste.
E così, Herr Doktor,
e così, Herr Nemico.
Sono il tuo capolavoro,
il tuo bene prezioso
l’infante d’oro puro
che si scioglie in un grido.
Mi rigiro e brucio.
Non credere che sottovalutati le tue sollecite cure.
Cenere, cenere —
Frughi e rimesti.
Carne, ossa, non ci sono resti —
una saponetta,
una vera nuziale,
una capsula dentaria.
Herr Dio, Herr Lucifero
in guardia
in guardia.
Dalla cenere
sorgo con i miei capelli rossi
e divoro gli uomini come aria

mercoledì 8 febbraio 2017

avrò per quella che non ode parole che non sono parole d’uomo.

giovedì 2 febbraio 2017

Lei lavorò a tagliare la carne con accanimento, aveva voglia di far male e farsi male. Ficcarsi il coltello nella mano, farlo scivolare, adesso, dalla carne morta a quella sua, viva. Urlare, scagliarsi contro gli altri, far pagare a tutti la sua incapacità di trovare un equilibrio. Ah, Lina Cerullo, sei incorreggibile. Perché hai messo su quell’elenco? Non vuoi farti sfruttare? Vuoi migliorare la tua condizione e quella di questa gente? Sei convinta che tu, loro, comincerete da qui, da ciò che siete adesso, e poi vi unirete alla marcia vittoriosa del proletariato di tutto il mondo? Macché. Marcia per diventare cosa? Ancora e sempre operai? Operai che sgobbano dalla mattina alla sera, ma al potere? Stronzate. Aria fritta per indorare la pillola della fatica. Sai bene che è una condizione terribile, non va migliorata ma cancellata, lo sai fin da piccola. Migliorare, migliorarsi? Tu, per esempio, sei migliorata, sei diventata come Nadia o Isabella? Tuo fratello è migliorato, è diventato come Armando? E tuo figlio è come Marco? No, noi restiamo noi loro loro. Allora perché non ti rassegni? Colpa della testa che non sa calmarsi, cerca di continuo un modo per funzionare. Disegnare scarpe. Brigare per mettere su un calzaturificio. Riscrivere gli articoli di Nino, ossessionarlo fino a che non faceva come dicevi tu. Usare a modo tuo le dispense di Zurigo, con Enzo. E adesso dimostrare a Nadia che se lei fa la rivoluzione, tu la fai ancora di più. La testa, ah sì, il male è là, è per l’insoddisfazione della testa che il corpo si sta ammalando. Sono stufa di me, di tutto. Sono stufa anche di Gennaro: il suo destino, se gli va bene, è finire in un posto come questo a strisciare per cinque lire in più davanti a qualche padrone. Allora? Allora, Cerullo, prenditi le tue responsabilità e fa’ quello che hai sempre avuto in mente: spaventare Soccavo, togliergli il vizio di chiavarsi le operaie dentro l’essiccatoio. Fa’ vedere che cosa hai saputo preparare allo studente con la faccia da lupo. Quell’estate a Ischia. Le bibite, la casa di Forio, il letto lussuoso su cui sono stata con Nino. I soldi venivano da questo posto, da questo malodore, da queste giornate passate nello schifo, da questa fatica pagata poche lire. Cosa ho tagliato, qui? Schizza fuori una pasta giallastra, che ribrezzo. Il mondo gira ma, meno male, se cade si rompe.
história de quem vai e de quem fica